Un fatto, mille voci

Un fatto è certo: le proteste in Siria non stanno coinvolgendo “le masse”, come è accaduto al Cairo, Tunisi, Manama, Sana’a, Tripoli. I disordini di Homs, Aleppo (non confermati) persino di Dar’aa, dove ha preso fuoco la rivolta più impetuosa, non sono paragonabili, per il numero di persone coinvolte, a quelle degli altri Paesi arabi. Le voci. Tante. Spesso contraddittorie. Un tam-tam d’informazioni. Che arrivano da chi è sul posto, da chi ha parenti o amici che vivono nelle zone “calde”. L’ultima notizia è arrivata stamattina. Altri sei morti a Dar’aa. Ma l’amico di Mohammed, originario della città non vuole raccontare di più. Scappa di nuovo, come ieri sera. “L’unico modo per sapere la verità in Siria – mi dice di nuovo Mohammad, – è esserci. Vedere”.

I media infatti, sono tutti filogovernativi  (non esiste una stampa di opposizione) anche se, dopo due anni, ho verificato che è diventata più aperta e lascia spazio anche a notizie – come quelle sui casi di discriminazione e violenza nei confronti delle donne – che prima non venivano pubblicate.

Le voci, dunque. “Il Presidente ci piace, è amato dal popolo”. “I siriani non seguiranno chi vuole la rivoluzione”. “Sì, il Presidente sta facendo molto per il Paese ma il il gruppo al potere è troppo corrotto”. “Non siamo poveri come gli egiziani, le nostre condizioni economiche e sociali sono migliori, perché dovremmo mobilitarci?”. “Non vedo un gruppo politico in grado di sostituire il governo”. Il governo riesce comunque a tenere uniti e in pace armeni, curdi, drusi, cristiani, musulmani, alawuiti”. “Aleppo? No ci vive mio zio, lo avrei saputo!”. “Dar’aa? Situazione critica, 4 morti, anzi di più”. “Dar’aa? Non tutti, in citta, hanno preso parte alla rivolta”.
Dopo molti no, non so, forse, ora anche a Damasco i rumors concondano nel confermare che un cordone militare circonda la città. L’ingresso è consentito ma solo a chi è in grado di dimostrare ragioni valide. E le comunicazioni telefoniche sono interrotte a causa dell’incendio appiccato dai manifestanti alla sede di Syriatel. Le immagini che arrivano sono degli abitanti che riprendono con il cellulare perché – sembra – nessuna tv ha avuto i permessi (infatti anche Aljazeera si basa su fonti di Agenzia, l’inviata è qui a Damasco).
Il Presidente Bashar al Assad intanto, continua a fare concessioni. Domenica scorsa , con un decreto legislativo, ha ridotto di tre mesi il servizio militare obbligatorio, da 21 a 18 mesi. El l’8 di febbraio aveva fatto riaprire l’accesso ad Internet e ai Social Groups. Ciò che è sempre mancata su larga base – e che in parte continua a mancare – in Siria è una vera cultura del dissenso. Una presa di coscienza del concetto di libertà. Che rimane ristretto a nicchie di élite culturali.

Che succedera? Nessuno può prevederlo. Il fuoco si propagherà a tutto il Paese o si spegnerà? I prossimi giorni sono “cruciali”. I siriani non sono, come d’altra parte noi italiani, un popolo di rivoluzionari. Se non fosse scoppiata la seconda guerra mondiale, penso, ci saremmo tenuti Mussolini. Però l’esempio dei Paesi vicini potrebbe risvegliare ideali sopiti e portare più siriani in piazza. In due settimane le cose sono cambiate nel senso che, al mio arrivo, non si poneva neppure la questione. Ora, pro o contro, i rumors sulla “rivoluzione” percorrono in lungo e in largo la capitale.

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