I siriani sono preoccupati del caos che può investire il Paese.
Damasco cambia di nuovo volto. La vita riprende a scorrere come se niente fosse successo. Venerdì scorso, la capitale era deserta e militarizzata, lunedì caotica, indaffarata. E le camionette dei soldati sono scomparse dalla città.
Fatima abita a Douma.
Durante le ultime due settimane è venuta a vivere dal fratello a Damasco, nel quartiere di Al-Saliyya ma oggi mi dice sorridendo: «Sono tornata a casa, ci sono posti di blocco e la polizia controlla i documenti, però è tutto tranquillo».
IL DISTACCO DI DAMASCO. Gli attivisti online avevano invitato la popolazione di Damasco a scendere in piazza lunedì 2 maggio, senza aspettare il venerdì. Ma, ancora una volta, la capitale non ha risposto all’appello.
Damasco continua a rimanere distaccata. La gente è «dispiaciuta per le vittime di Daraa e di Homs», ma non si schiera con i manifestanti. Il coro è sempre lo stesso e non solo presso i ceti borghesi o medio borghesi. «L’opposizione non è preparata, non c’è una leadership e non ci sono programmi», dichiara Rida, medico dentista.
«Sono più spaventato dal caos che dai militari o dalle forze di sicurezza», racconta Khaled, un giovane taxista che «vorrebbe sposarsi ma non ha i soldi per farlo».
CRESCE LA DIFFIDENZA. Sempre accesa e trasversale la polemica sui soldati uccisi. Sono in tanti a credere alla versione ufficiale e governativa che li definiscono «vittime di quanti vogliono destabilizzare la Siria».
Ancora accuse ai media stranieri. «Voi continuate a sostenere che sono stati uccisi perché volevano abbandonare l’esercito, o addirittura perché si sono rifiutati di sparare sui manifestanti, ma non è vero». Si avverte una certa diffidenza nei damasceni in genere così cordiali con gli stranieri. In questi giorni gli occidentali sono guardati con molta curiosità e un’ombra di sospetto.
Esercito e attivisti colpevoli della spirale di violenza
Sabato nel quartiere conservatore sunnita di Midan – dove il 29 aprile si è svolta una manifestazione dispersa dai lacrimogeni – nel grande suq di generi alimentari e di dolci, la gente chiede continuamente: «Da dove vieni?», «Da quanto tempo sei in Siria?», «Quanto rimani?».
Anche se poi un ragazzino mi accompagna in via Queashi, a vedere la chiesa sconsacrata di Santa Maria all’interno di un cortile di una casa privata. Il proprietario mi fa entrare con gentilezza e mi permette di scattare qualche fotografia. Ma la domanda «Min wein? Russia?, Francia?, Gran Bretagna?» è un ritornello continuo. Anche quando prendo il biglietto per visitare il museo nazionale, cosa che non mi era mai successa.
LE ACCUSE DELL’OPPOSIZIONE. Intanto l’oppositore Bassam Al-Kadi ha firmato un manifesto, diffuso online, in cui accusa sia il regime sia gli attivisti della spirale di violenza che ha travolto la Siria, e invita gli attivisti a fermare le manifestazioni e a riflettere.
«La mancanza di fiducia nel regime è giustificata dopo anni di promesse disattese ma ora abbiamo l’occasione per vedere se le riforme saranno davvero messe in atto. È stato abolito lo stato di emergenza dopo quasi 50 anni e il presidente ha promesso che permetterà la formazione di partiti politici. Proviamo a organizzarci seriamente. Qualcosa è comunque successo e il regime dovrà tenerne conto».
SI ATTENDE IL VENERDÌ. Lunedì, anche le strada per Harasta, cittadina satellite di Damasco, a circa tre chilometri da Douma – dove il il 22 aprile si erano verificati scontri fra manifestanti e le forze dell’ordine – è libera.
Ci si può arrivare con i mezzi pubblici, l’autobus o i microbus, e non ci sono posti di blocco. Harasta è un centro molto semplice e popolare. Nell’unico caffè-ristorante della piazza principale, il proprietario racconta: «Oggi tutto è normale, ma due settimane fa era diverso. Si sparava nelle stade e i militari requisivano i cellulari. Perché non torni venerdì a vedere?».
di Antonella Appiano per Lettera43