Come districarsi nelle paludi di un fenomeno complesso
E’ diventato un circolo vizioso fra semplificazioni, proclami, notizie e immagini terrificanti. Negli ultimi mesi, il termine jihadismo, ha invaso di nuovo i media, generando spesso confusione o alimentando paure e diffidenze nei confronti dell’Islam.
Ma prima di tutto che cosa significa? Lo abbiamo chiesto a Ludovico Carlino, Dottorando presso l’University of Reading, in Gran Bretagna, dove si occupa di jihadismo e di Al-Qaeda.
In senso contemporaneo può il essere definito un islamismo militante armato. Anche se la parola Jihad ha un significato profondo e molteplice, spesso ignorato in Occidente, dove viene sempre tradotto con “Guerra Santa”. Senza dubbio tutti quei movimenti e gruppi che si definiscono ‘parte della corrente della jihādiyya’ fanno appello ad un concetto di Jihad nella sua accezione militante. Concetto che trae origine nella guerra a difesa del primo Stato Islamico fondato dal Profeta Muhammad a Medina nel 622.
Questa concezione classica, ha poi subito costanti reinterpretazioni nel corso dei secoli, fino a trovare una sistematizzazione per così dire contemporanea negli anni ’60/70 del 1900, in relazione alle idee dell’Egiziano Sayd Qutb. In quel senso, Jihad stava ad indicare la lotta armata finalizzata al rovesciamento di un governo locale. La seconda reinterpretazione, quella che per certi versi è alla base del jihadismo attuale, avviene in Afghanistan negli anni ’80, durante l’invasione sovietica, ed è principalmente legata alle idee del Palestinese Abdullah Azzam. Secondo Azzam l’invasione del territorio musulmano da parte di eserciti stranieri, richiedeva l’immediato coinvolgimento militare da parte di tutti i Musulmani. Da qui, il convergere in Afghanistan, di combattenti da ogni parte del mondo musulmano. La terza rielaborazione, e quella che sicuramente ha avuto il maggiore impatto nella percezione attuale del jihadismo, è quella operata sempre in Afghanistan da Osama Bin Laden, che allargò lo spettro di legittimità del jihad finendo per inglobare anche quei paesi accusati di parteggiare per i regimi arabi corrotti (la cosiddetta “Alleanza Crociato-Sionista”: Israele ed i paesi occidentali ci sostengono) tali da diventare obiettivi legittimi anche nel loro stesso territorio. Il risultato è che oggi jihadismo sta ad indicare sì la rilevanza della lotta armata come metodo d’azione, ma al fine di raggiungere una pluralità di obiettivi spesso confusi e che non sempre convergono tra loro.
Nel 2000 Gilles Kepel scrisse “Jihad ascesa e declino”. Un libro in cui sosteneva che la guerra santa aveva perso buona parte della forza e i movimenti integralisti erano destinati a svolgere un ruolo marginale nel futuro delle società musulmane. E’ ancora così?
Non credo che la prospettiva di uno Stato Islamico in Siria sia realizzabile. Le potenze occidentali non permetteranno mai che in un’eventuale Siria post-Assad forze jihadiste possano avere un ruolo politico. A meno ché le fazioni meno radicali non decidano di abbandonare le armi, accettare le regole del gioco democratico e distanziare la loro visione da quelle ideologie più conservatrici. In secondo luogo credo che le stesse differenze interne alle fazioni jihadiste siriane – parte delle quali molto vicine allo Stato Islamico d’Iraq (la vecchia al-Qaeda in Iraq per intenderci) e quindi legate ad una visione più transnazionale e settaria, ed altre prettamente ancorate alla realtà siriana – siano destinate ad esplodere. In questo frangente la lotta contro un nemico comune, il regime di Assad, sta funzionando da collante ideologico, ma una volta venuto meno il regime di Damasco ogni fazione cercherà di perseguire il proprio obiettivo. In terzo luogo sono dell’idea che gli stessi siriani hanno una prospettiva ben differente per il loro Paese. Negli unici due casi dove movimenti jihadisti hanno realmente tentato di implementare esperimenti di governance locale, e cioè in Mali e nello Yemen, queste esperienze si sono concluse con l’alienazione della popolazione locale costretta a subire un’applicazione brutale della legge shariatica e con una dimostrazione dell’inconsistenza utopica del progetto jihadista.
Esiste il reale pericolo che il continuo parlare di jihadismo estremizzi la paura dell’Islam? Che la gente confonda l’essere musulmano con l’essere “terrorista”?
Il pericolo esiste, è concreto ed in realtà si è cristallizzato in alcuni ambienti sin dall’11 settembre. Molta dell’informazione attuale sul jihadismo è parziale, o presentata sotto una veste ambiguita, il ché spesso finisce per rafforzare alcune narrative che celano, allo stesso tempo, dinamiche ed interessi politici. Bisogna parlarne in maniera corrett, con categorie analitiche e differenziazioni adeguate in grado di lasciare da parte pericolose generalizzazioni. Nessuno mette più in dubbio il radicalismo di un messaggio come quello propugnato da al-Qaeda, ma è vero anche che non tutti i jihadisti sono al-Qaeda. Allo stesso tempo è vero che il jihadismo miete vittime, ma è anche vero che la maggior parte di queste sono Musulmani. E in molti sembrano ancora oggi dimenticarlo.
Antonella Appiano per L’Indro Il fondamentalismo-islamico (riproducibile citando la fonte)
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