Ancora il velo islamico?

Spesso scrivo sulla pagina Fb che la gente mi chiede in continuazione se, quando vado nei paesi arabi, devo velarmi. Cerco di spiegare con calma e gentilezza. Ma la “questione del velo islamico” continua ad attrarre, direi morbosamente. Le amiche musulmane che indossano l’hijab (il fazzoletto che copre solo i capelli) sono spesso oggetto di diffidenza. Amina confessa: “il Portiere continua a chiedermi, perché non lo togli?”. In Italia l’hijab da ancora fastidio. Cinque anni fa scrivevo questo articolo “Ma che c’entra il velo con il lavoro? Eccome se c’entra..provate a presentarvi a un colloquio con l’hijab” su JOBTalk ilSole24ore Donne &Lavoro.

Velata & Velina - il velo è mio e lo gestisco ioVelate o svelate? Il velo è un problema complesso al centro di un vivace dibattito non solo in Europa ma anche nel mondo musulmano. In Italia, oggetto di polemiche e confusione. C’è, infatti, una gran differenza fra il niqab (velo integrale che lascia scoperti gli occhi), il burqa (mantello afghano che copre testa, viso e corpo, con una retina davanti agli occhi) e l’hijab (semplice foulard che nasconde solo capelli e collo lasciando scoperto il viso).
Confusione alimentata anche dai nostri media.

Anche stamattina molto quotidiani nazionali titolavano “No al Burqa”. In realtà l’hijab è il velo più indossato dalle musulmane immigrate nel nostro Paese. Ho molte amiche che lo portano. Anche ragazze giovani. E lo “difendono” per motivi religiosi o semplicemente legati alla tradizione o all’identità. Non credo spetti a noi italiani giudicare. Il punto cruciale è che sia frutto di una libera scelta. Mentre la legge dovrebbe limitarsi al rispetto della normativa del 1975 in materia di sicurezza che vieta di “coprirsi il volto in pubblico impedendo il riconoscimento della persona”. L’hijab non infrange dunque nessuna norma. Eppure molte musulmane con l’hijab sono guardate con diffidenza e discriminate sul lavoro.
Fatima Zahra Habib Eddine, 26 anni, origini marocchine, una laurea in scienze politiche, mi ha raccontato le sue difficoltà a un Convegno delle Seconde Generazioni Musulmane, a Torino. “Durante il periodo universitario, come altri studenti, ero in cerca di qualche lavoretto ma quando trovavo un posto, mi veniva chiesto di togliere l’hiiab”. Anche Amal, che frequenta la scuola per immigrati, è sottoposta a pressioni. Due esempi, ma ce ne sarebbero molti da raccontare. Perché l’hijab, in Italia, ispira ancora fastidio? Come può un pezzetto di stoffa creare problemi e pregiudizi? Forse non è il foulard di per sé ma ciò che rappresenta, la fede musulmana. L’elezione di qualche mese fa, a consigliera comunale, a Rovereto, in Trentino, di Aicha Mesrar – musulmana e cittadina italiana dal 2008 – può rappresentare un buono spunto di riflessione. Le dichiarazioni del consigliere leghista Willy  Angeli  rilasciata allora  a “La Stampa”: ”Al di là del fazzoletto può far paura quello che c’è sotto”, confermano  la fatica di accostarsi a una civiltà differente dalla nostra. In Italia un certo “fondamentalismo della cultura cristiana” contro le culture “altre”, soprattutto quella islamica, è evidente.  E non solo nelle regioni dove è forte la presenza della Lega. C’è un’opinione pubblica addomesticata da anni all’idea del sospetto. Dell’islamismo uguale fondamentalismo. Non siamo preparati. Non sappiamo abbastanza.  E il nuovo, “il diverso da noi” in un paese statico e poco disposto al cambiamento, fa  ancora paura.  Ma Aisha, una donna colta, che ha studiato lingue all’Università di Trento, e lavora come mediatrice culturale portando l’hijab, impegnata in attività sociali e ora anche in politica, ribalta un altro stereotipo. Quello della donna musulmana relegata fra le pareti domestiche.  E’ un inizio. Un segnale concreto. Forse è sufficiente dare e darsi tempo. Il tempo di capire, conoscere, comunicare. Superare quelle che oggi sembrano barriere, ma in realtà non lo sono.

La vignetta è tratta dall’articolo originale pubblicato sul Sole24ore.

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