«Arrivi o parti?» Amelia
«Non lo so. Tutti e due» Viktor
Questa è una battuta dei due personaggi principali (interpretati da Catherine Zeta-Jones e Tom Hanks) nel celebre film “The terminal”. Ma per me, expat, rispecchia la realtà. E la relazione con gli aeroporti, una vera e propria storia di amore.
Perché i verbi assumono una valenza diversa, quando vivi in un altro Continente, in un Paese che senti tuo. E allora le carte si scompigliano. “Andare“ in Italia o ”tornare” per esempio?
Senza dubbio andare perché ormai “tornare” lo riferisco all’Oman, che adesso è la vera casa.
L’aeroporto rappresenta per me un “luogo, non luogo“ ideale, che frequento spesso qui a Muscat, non solo per i miei lunghi o brevi viaggi, ma anche per andare ad accogliere amici che vengono nel Sultanato di Oman per una vacanza, per affari o solo di passaggio.
Qualche mese fa, una mattina presto, alle 6, mentre stavo postando una fotografia su Instagram, ho visto un messaggio privato da Roman, un amico archeologo e fotografo: «Ciao sono andato in Sudan e mi sono fermato a Muscat solo un giorno, per lavoro. Non ce l’ho fatta a chiamarti ma sono all’aeroporto, in partenza per Praga. Se vieni, prendiamo un caffè». Certo. Chi resiste ad ascoltare le nuove avventure di Roman?
Momenti come questi capitano spesso, soprattutto quando vivi in una Capitale che rappresenta un hub, un incrocio per destinazioni verso l’est e verso l’ovest. E quando, da expat, hai ormai amici in tutto il mondo. Chi ha vissuto in Oman ed è ripartito per altri Paesi; chi è ritornato. Chi ci passa per andare in India, in Thailandia e “fa tappa” un paio di giorni per rivedere gli amici. I figli, magari. Già perché nello “scontornato” mondo degli expat succede anche questo. Che i genitori, per lavoro, siano destinati a un altro Paese, ma i figli, già grandi, all’Università, decidano di rimanere dove sono venuti da piccoli, dove stanno studiando. Dove si sono innamorati.
Vado nell’atrio partenze anche solo per sedermi e guardare la gente, sorseggiando un caffé.
«Adorava gli aeroporti: le piacevano l’odore, il rumore, l’atmosfera, la gente che correva qua e là con le valigie, felice di partire, felice di tornare. Le piaceva vedere gli abbracci, cogliere la strana commozione dei distacchi e dei ritrovamenti. L’aeroporto era il posto ideale per osservare le persone, e la riempiva sempre di un piacevole senso di anticipazione, come se stesse per succedere qualcosa.» Scrive Cecilia Ahern.
Così io. Rimango ancora, dopo anni, incantata da quell’incrociarsi di lingue, abiti, colori, profumi. “Gente che va e gente che viene” – ognuno con i propri bagagli, pensieri e la propria storia che quasi certamente non conoscerai mai. E allora provi ad immaginare.
Ne ho visti tanti di aeroporti. Piccoli e sperduti, con piste di atterraggio in piena giungla; enormi e ipertecnologici, come quello nuovo di Muscat, inaugurato il 20 marzo scorso. E tutti mi sembrano “bolle” preziose e affascinanti. Come scrive Alan De Bottom: «Gli atri delle partenze e degli arrivi racchiudono lo spettro dei temi che percorrono la nostra civiltà: dalla fede nella tecnologia alla decostruzione della natura; dalla capacità di interconnessione a quella di attribuire al viaggio una patina di romanticismo.»
Quindi Parti o Arrivi? Non so: tutti e due.
Il nuovo International Airport di Muscat in numeri:
Superficie: 335.000 metri quadrati (di cui 6.000 dedicati all’area duty free)
Due parcheggi su 5 livelli con 2.300 posti auto.
Area Passeggeri: 580.000 metri quadrati, due gate principali, 40 finger per il collegamento tra i veivoli e l’aerostazione, 1 hotel interno.
In fase iniziale, sarà in grado di trasportare 12 milioni di passeggeri all’anno, con l’obiettivo di aprire nuove rotte a lungo raggio e di diventare entro il 2020, uno dei 20 migliori aeroporti a livello nazionale.
Nota: I dati sono riportati dall’Ufficio del Turismo del Sultanato di Oman