Arabia Saudita

Nell’autunno dello scontento saudita

Madawi al-Rasheed, docente saudita al King’s College dell’Università di Londra, nel testo «Storia dell’Arabia Saudita» analizza a fondo l’avvicinamento del Regno arabo agli Stati Uniti durante gli anni Ottanta, raccontando come «Fahd, più di ogni altro leader saudita portò avanti una relazione speciale con gli States, stringendo rapporti militari, economici e politici. Di fronte all’instabilità della situazione del Golfo causata allora dal rovesciamento dello Shah in Iran e dalla guerra fra Iran e Iraq, l’Arabia Saudita cercò l’appoggio americano per difendersi da quella che considerava la minaccia della Repubblica islamica di Teheran e dal potenziale pericolo rappresentato dall’Unione Sovietica».

Un’alleanza storica quindi,  nata già nel 1932, per volere re Abdul Aziz.  Le ragioni oggi sembrano paradossali ma re Abdul Aziz preferì  stabilire un patto di alleanza con gli Stati Uniti piuttosto che con la Gran Bretagna «perché gli statunitensi non avevano ambizioni imperialistiche».

La relazione oggi scricchiola? I Sauditi sono tesi e suscettibili. Hanno rifiutato di tenere il discorso all’assemblea generale dell’Onu e il 18 ottobre scorso hanno rinunciato al seggio non permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

 Non approvano l’avvicinamento del Presidente Usa  Barak Obama al Presidente della Repubblica Islamica iraniana,  Hassan Rohani.  E lo dimostrano apertamente.  Un cambio di rotta positivo quello degli Stati Uniti,  ma i Sauditi non la vedono i questo modo. Dal 1979, anno della rivoluzione di Khomeini in Iran infatti, gli Stati Uniti e Arabia Saudita si erano sempre opposti al regime religioso di Teheran. Ma dopo i segnali di distensione  e di aperture diplomatiche del nuovo presidente iraniano, Hassan Rohani, gli Stati Uniti hanno  incominciato a trattare con l’Iran un accordo sul nucleare. 

Altri dissapori.  Gli Stati Uniti hanno inutilmente chiesto alla Casa Regnante Saudita  di mitigare, in Egitto, la repressione del  generale al- Sisi contro i Fratelli Musulmani.  Ma i Sauditi,  alleati del Hosni Mubarak, avevano già dissentito quando il Presidente Obama aveva appoggiato la piazza egiziana contro il Rais. Forti oppositori dei Fratelli Musulmani  si erano irritati nell’assistere al  suo sostegno alla Fratellanza, salita al potere attraverso regolari elezioni.

Il terreno siriano ha fornito ai Sauditi altri motivi di  malcontento. La decisione  di Washington del 27 settembre scorso di sospendere l’attacco annunciato contro la Siria di Bashar al- Assad. E  possiamo immaginare i tormenti della Casa Reale  che ha dovuto assistere all’accordo fra Stati Uniti e Russia sul disarmo dell’ arsenale chimico siriano.  

In contrasto sull’Egitto, la Siria e l’Iran, rimane comunque un collante fra gli Stati Uniti e l’Arabia,  la lotta comune contro il terrorismo e i gruppi legati ad Al- Qaida che si stanno diffondendo, rafforzati, in molti Paesi dell’area mediorientale.

L’Arabia  Saudita è guidata da  una classe dirigente anziana e si sta dimostrando piuttosto rigida nell’accogliere mutamenti. Ma in quanto sede della Mecca e dei santuari piu’ sacri dell’Islam, la sua politica non interessa solo la popolazione  interna ma milioni di musulmani nel mondo. Impossibile non tenerne conto.

Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro Nell’autunno dello scontento saudita (riproducibile citando la fonte)

 

Madawi al-Rasheed, docente saudita al King’s College dell’Università di Londra, nel testo «Storia dell’Arabia Saudita» analizza a fondo l’avvicinamento del Regno arabo agli Stati Uniti durante gli anni Ottanta, raccontando come «Fahd, più di ogni altro leader saudita portò avanti una relazione speciale con gli States, stringendo rapporti militari, economici e politici. Di fronte all’instabilità della situazione del Golfo causata allora dal rovesciamento dello Shah in Iran e dalla guerra fra Iran e Iraq, l’Arabia Saudita cercò l’appoggio americano per difendersi da quella che considerava la minaccia della Repubblica islamica di Teheran e dal potenziale pericolo rappresentato dall’Unione Sovietica».

Un’alleanza storica quindi,  nata già nel 1932, per volere re Abdul Aziz.  Le ragioni oggi sembrano paradossali ma re Abdul Aziz preferì  stabilire un patto di alleanza con gli Stati Uniti piuttosto che con la Gran Bretagna «perché gli statunitensi non avevano ambizioni imperialistiche».

La relazione oggi scricchiola? I Sauditi sono tesi e suscettibili. Hanno rifiutato di tenere il discorso all’assemblea generale dell’Onu e il 18 ottobre scorso hanno rinunciato al seggio non permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

 Non approvano l’avvicinamento del Presidente Usa  Barak Obama al Presidente della Repubblica Islamica iraniana,  Hassan Rohani.  E lo dimostrano apertamente.  Un cambio di rotta positivo quello degli Stati Uniti,  ma i Sauditi non la vedono i questo modo. Dal 1979, anno della rivoluzione di Khomeini in Iran infatti, gli Stati Uniti e Arabia Saudita si erano sempre opposti al regime religioso di Teheran. Ma dopo i segnali di distensione  e di aperture diplomatiche del nuovo presidente iraniano, Hassan Rohani, gli Stati Uniti hanno  incominciato a trattare con l’Iran un accordo sul nucleare.

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L’ambiguità dell’Arabia Saudita

I Sauditi, schierati con l’Opposizione siriana, cominciano a cercare una soluzione politico – diplomatica?

Tempo di riflessione per l’Arabia Saudita.  Fin dall’inizio dell’internazionalizzazione della crisi, il Paese si è allineato a fianco dell’opposizione siriana, fornendo aiuto finanziario e militare ai ribelli, sia all’Esercito siriano libero (ESL) sia ai gruppi vicini all’ideologia wahabita (una corrente ultraconservatrice che si fonda sulla purezza e sulle origini dell’Islam).   Come sappiamo infatti la Siria, dal punto di vista geopolitico, è un Paese-chiave per  posizione strategica. Ed è per questo che la rivolta siriana, nata come ribellione nei confronti del regime, si è presto trasformata in  un conflitto tra diversi attori regionali e internazionali. Tutti determinati a seguire i propri interessi.  L’esito dello scontro, che da più di due anni sta straziando il Paese, avrà in ogni caso un peso determinante sui futuri assetti regionali.

a qualcosa sta cambiando, almeno per l’Arabia Saudita. Partita come paladina della “primavera siriana”, già dall’inizio del 20,  richiamando l’ambasciatore a Damasco ed esponendosi con dichiarazioni pubbliche e azioni politiche contro Bashar al-Asad ,  ora sembra indecisa se proseguire sulla stessa linea. Intendiamoci, continua a mandare denaro e armi ai ribelli ma sembrerebbe aspirare a una soluzione  politico-diplomatica. Perché? – See more at: http://www.lindro.it/politica/2013-06-13/87026-lambiguita-dei-sauditi#sthash.koUEb6Wh.dpuf

Tempo di riflessione per l’Arabia Saudita.  Fin dall’inizio dell’internazionalizzazione della crisi, il Paese si è allineato a fianco dell’opposizione siriana, fornendo aiuto finanziario e militare ai ribelli, sia all’Esercito siriano libero (ESL) sia ai gruppi vicini all’ideologia wahabita( una corrente ultraconservatrice che si fonda sulla purezza e sulle origini dell’Islam).

Come sappiamo infatti la Siria, dal punto di vista geopolitico, è un Paese-chiave per  posizione strategica. Ed è per questo che la rivolta siriana, nata come ribellione nei confronti del regime, si è presto trasformata in  un conflitto tra diversi attori regionali e internazionali. Tutti determinati a seguire i propri interessi.  L’esito dello scontro, che da più di due anni sta straziando il Paese, avrà in ogni caso un peso determinante sui futuri assetti regionali.

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Tempo di riflessione per l’Arabia Saudita.  Fin dall’inizio dell’internazionalizzazione della crisi, il Paese si è allineato a fianco dell’opposizione siriana, fornendo aiuto finanziario e militare ai ribelli, sia all’Esercito siriano libero (ESL) sia ai gruppi vicini all’ideologia wahabita( una corrente ultraconservatrice che si fonda sulla purezza e sulle origini dell’Islam).

Come sappiamo infatti la Siria, dal punto di vista geopolitico, è un Paese-chiave per  posizione strategica. Ed è per questo che la rivolta siriana, nata come ribellione nei confronti del regime, si è presto trasformata in  un conflitto tra diversi attori regionali e internazionali. Tutti determinati a seguire i propri interessi.  L’esito dello scontro, che da più di due anni sta straziando il Paese, avrà in ogni caso un peso determinante sui futuri assetti regionali.

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Ma qualcosa sta cambiando, almeno per l’Arabia Saudita. Partita come paladina della “primavera siriana”, già dall’inizio del 20,  richiamando l’ambasciatore a Damasco ed esponendosi con dichiarazioni pubbliche e azioni politiche contro Bashar al-Asad ,  ora sembra indecisa se proseguire sulla stessa linea. Intendiamoci, continua a mandare denaro e armi ai ribelli ma sembrerebbe aspirare a una soluzione  politico-diplomatica. Perché?

Prima di tutto consideriamo le motivazioni dello schieramento anti- Assad. Motivazioni di politica estera,come abbiamo detto, per via del ruolo importante della Siria sulla scacchiera regionale.

La competizione fra i Paesi del Golfo e l’Iran esiste, per ragioni economiche, di potere e territoriali. Dal punto di vista degli equilibri regionali, con la sconfitta degli Assad, l’Arabia saudita potrebbe acquistare influenza in Libano (a scapito del partito Hezbollah alleato delle Siria); in Iraq (dove attualmente è al governo lo sciita Al Maliki). E metterebbe in posizione di svantaggio l’Iran che si è sempre servito della Siria come deterrente conto Israele. Gli analisti hanno sottolineato in particolare la storica contrapposizione fra sunniti e sciiti (gli Assad appartengono al ramo sciita degli Alawuiti). La casa regnate saudita, è invece sunnita (precisamente wahabita). Un regime sciita contro una popolazione in rivolta (per lo più sunnita) quindi, contrastato da un forte Paese sunnita. Ma la spaccatura confessionale rappresenta solo un aspetto del rapporto complesso fra Siria e Arabia Saudita. La religione cela sempre altri intereressi, non possiamo infatti dimenticare che la decisone di Ryad di collocare le sue pedine contro Damasco, dipende anche da ragioni di politica interna.

Lo schieramento anti-Assad  ha rappresentato l’escamotage per allontanare l’attenzione dai mille problemi della Monarchia saudita, che certo non è un modello di democrazia e deve fare i conti, nonostante la ricchezza con corruzione, disoccupazione, rivolte nelle fasce sciite, conflitti tribali. Importanti anche le motivazioni del consenso interno.Ergendosi infatti a paladino dei sunniti, il Regno saudita, ha senza dubbio ottenuto l’appoggio dei sunniti wahabiti più conservatori.

Ma oggi sembra appunto che la casa regnante dei Saud, abbia qualche ripensamento. Che deriva soprattutto da tre fattori.  Gli attriti con il Qatar, la morte del re Abd Allāh bin Abd al-Azīz Āl Saūd e la sua successione e la paura di una deriva jihadista in Siria.

Il Qatar. C’è stato un momento, prima del’inizio delle manifestazioni, in cui l’Arabia Saudita, insieme al Qatar, l’altro grande sponsor dell’Opposizione siriana,  aveva  cercato di allontanare la leadership di Damasco  dalla sfera iraniana.  Ma dopo lo scoppio  della crisi, il connubio fra sauditi e qatarini  si è via via raffreddato. Il Qatar infatti  ha procurato aiuti  e appoggio  ai Fratelli musulmani siriani, il gruppo più forte all’interno della Coalizione nazionale siriana.

In risposta, l’Arabia saudita, si è da poco schierata a favore dei gruppi laici presenti nella stessa Coalizione nazionale e  in opposizione al predominio della Fratellanza musulmana. La morte di re ‘Abd Allāh  costituisce un nuovo problema da gestire  e last but not least, Ryad ha cominciato ad accorgersi che il proliferare dei movimenti salafiti potrebbe ritorcersi contro l’Arabia Saudita favorendo una  ventata fondamentalista. Come si comporterebbero i gruppi estremisti non solo foraggiati ma spesso partiti volontari  dall’Arabia Saudita?  

L’Arabia Saudita fornisce armi all’opposizione, attraverso il confine meridionale siriano (Daraa)  e attraverso la Turchia ma già dall’inizio del 2013  ha cominciato cominci a porsi la domanda che si è fatta anche l’Occidente: a chi andranno gli armamenti, il denaro? Molte formazioni, non sono mai state controllate, altre hanno dichiarato la propria indipendenza in un momento successivo.

Continuare ad armare il conflitto – da una parte o dall’altra  degli schieramenti  – non farà che prolungare la guerra in atto e creare altra sofferenza al popolo siriano. Mentre i rischi di una estensione degli scontri  nell’area,  sono già diventati realtà.

Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro: L’ ambiguità dei Sauditi

empo di riflessione per l’Arabia Saudita.  Fin dall’inizio dell’internazionalizzazione della crisi, il Paese si è allineato a fianco dell’opposizione siriana, fornendo aiuto finanziario e militare ai ribelli, sia all’Esercito siriano libero (ESL) sia ai gruppi vicini all’ideologia wahabita( una corrente ultraconservatrice che si fonda sulla purezza e sulle origini dell’Islam).

Come sappiamo infatti la Siria, dal punto di vista geopolitico, è un Paese-chiave per  posizione strategica. Ed è per questo che la rivolta siriana, nata come ribellione nei confronti del regime, si è presto trasformata in  un conflitto tra diversi attori regionali e internazionali. Tutti determinati a seguire i propri interessi.  L’esito dello scontro, che da più di due anni sta straziando il Paese, avrà in ogni caso un peso determinante sui futuri assetti regionali.

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(riproducibile citando la fonte)

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Tempo di riflessione per l’Arabia Saudita.  Fin dall’inizio dell’internazionalizzazione della crisi, il Paese si è allineato a fianco dell’opposizione siriana, fornendo aiuto finanziario e militare ai ribelli, sia all’Esercito siriano libero (ESL) sia ai gruppi vicini all’ideologia wahabita( una corrente ultraconservatrice che si fonda sulla purezza e sulle origini dell’Islam).

Come sappiamo infatti la Siria, dal punto di vista geopolitico, è un Paese-chiave per  posizione strategica. Ed è per questo che la rivolta siriana, nata come ribellione nei confronti del regime, si è presto trasformata in  un conflitto tra diversi attori regionali e internazionali. Tutti determinati a seguire i propri interessi.  L’esito dello scontro, che da più di due anni sta straziando il Paese, avrà in ogni caso un peso determinante sui futuri assetti regionali.

Ma qualcosa sta cambiando, almeno per l’Arabia Saudita. Partita come paladina della “primavera siriana”, già dall’inizio del 20,  richiamando l’ambasciatore a Damasco ed esponendosi con dichiarazioni pubbliche e azioni politiche contro Bashar al-Asad ,  ora sembra indecisa se proseguire sulla stessa linea. Intendiamoci, continua a mandare denaro e armi ai ribelli ma sembrerebbe aspirare a una soluzione  politico-diplomatica. Perché?

Prima di tutto consideriamo le motivazioni dello schieramento anti- Assad. Motivazioni di politica estera, come abbiamo detto, per via del ruolo importante della Siria sulla scacchiera regionale.

La competizione fra i Paesi del Golfo e l’Iran esiste, per ragioni economiche, di potere e territoriali. Dal punto di vista degli equilibri regionali, con la sconfitta degli Assad, l’Arabia saudita potrebbe acquistare influenza in Libano (a scapito del partito Hezbollah alleato delle Siria); in Iraq (dove attualmente è al governo lo sciita Al Maliki). E metterebbe in posizione di svantaggio l’Iran che si è sempre servito della Siria come deterrente conto Israele. Gli analisti hanno sottolineato in particolare la storica contrapposizione fra sunniti e sciiti (gli Assad appartengono al ramo sciita degli Alawuiti). La casa regnate saudita, è invece sunnita (precisamente wahabita). Un regime sciita contro una popolazione in rivolta (per lo più sunnita) quindi, contrastato da un forte Paese sunnita. Ma la spaccatura confessionale rappresenta solo un aspetto del rapporto complesso fra Siria e Arabia Saudita. La religione cela sempre altri intereressi, non possiamo infatti dimenticare che la decisone di Ryad di collocare le sue pedine contro Damasco, dipende anche  da ragioni di politica interna.

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Arabia Saudita, la successione del Principe Salman

Quanto conterà negli equilibri regionali e mondiali, chi salirà al trono del Regno Saudita, dopo la morte dell’ottantanovenne re ‘Abd Allāh bin Abd al-Azīz Āl Saūd (conosciuto più semplicemente come re Abdullah)?  La notizia della scomparsa del monarca, riportata dal quotidiano ‘Al-Sharq Al-Awsat’ basato a Londra, appare ormai certa, anche se i principali media arabi e le fonti ufficiali, non l’hanno ancora confermata.

Conterà molto poco, dato che il principe ereditario è un “giovincello” di 78 anni, Salman bin-Abdulaziz al-Saud, nominato il 18 giugno 2012, che appartiene alla vecchia guardia dei fratelli del re. Anche se si accendessero lotte intestine riguardo la successione, non potrebbero esserci sorprese. A contendersi il trono, già designato, ci sono infatti ancora molti dei 53 figli del primo re e fondatore della “Nazione Arabia Saudita” nel 1932,  Abdulaziz Ibn Saud. Tutti, ovvio, in  età avanzata . Anche Abdullah era figlio diretto di Ibn Saud.  La successione nel Regno passa da fratello a fratello. Una famiglia allargata,  divisa in clan di appartenenza, a seconda della madre. Ma si tratta comunque di rappresentanti conservatori. Nessun giovane rivoluzionario a Corte. Nessun mutamento significativo all’orizzonte.

Nonostante re Abdullah sia stato indicato come un “riformatore” (piccoli segnali di fumo a favore delle donne come, per esempio, la concessione al diritto di voto e quello di candidarsi alle prossime elezioni municipali nel 2015) non si può certo affermare che la monarchia  Saudita, esponente di punta della corrente ultraconservatrice dell’Islam wahabita, (un movimento che si fonda sulla purezza e sulle origini dell’Islam) sia un Paese aperto ai cambiamenti. O a processi democratici.

Se i popoli tunisino, egiziano e siriano, è sceso in piazza chiedendo libertà e democrazia, è davvero ridicolo che l’Arabia Saudita, politicamente  – e anche attraverso la sua emittente televisiva Al Arabya –  si sia proclamata paladina degli oppositori e della democrazia, dato che non possiede neppure una Costituzione scritta. Con nessun esponente della famiglia reale al trono, non potrà arrogarsi mai, se non ipocritamente,  questo ruolo. Né  rappresentare un modello di libertà. Il Regno è strutturato secondo una rigida gerarchia. La ricchezza derivata dal petrolio e il potere della famiglia reale (che guida la regione fin dal diciottesimo secolo e occupa tutte le posizione chiave) hanno mantenuto il Paese stabile, nonostante l’Arabia Saudita sia agli ultimi posti al mondo nella graduatoria dei diritti umani, della condizione della donne, e del trattamento lavorativo e sociale per  i lavoratori-immigrati.

Sotto il regno di Abdullah  il Paese è stato sfiorato, nel marzo del 2011, dalle brezze della “primavera araba”.  La provincia orientale del paese, dove vive la minoranza sciita ( tra il 6 e il 12 per cento popolazione totale del Regno)  è stata “contagiata” dalle proteste del vicino Bahrein. E  si è registrato un innegabile senso di frustrazione della popolazione del ceto medio, che chiede servizi sociali migliori, più attenzione per l’ambiente e il lavoro. E, come in tutti i Paesi arabi, meno corruzione  nella pubblica  amministrazione. Importante ricordare che, in Arabia Saudita, dove l’economia è sempre dominata dal settore petrolifero, stanno nascendo problemi economici e sociali. Come la disoccupazione giovanile ( nel Paese il 30% cento circa  dei nativi  ha meno di quindici anni,)  il crescente  degrado ambientale,  e la poca attenzione riservata all’istruzione.

Le proteste hanno provocato imponenti arresti di attivisti e oppositori ( che sul territorio saudita non sono osannati come quelli degli altri Paesi arabi). L’approvazione di un piano per ridurre la disoccupazione di circa 36 milioni di dollari  e qualche tiepida riforma economica.

Il Regno Saudita, cuore spirituale dell’Islam, è un paese chiave della scacchiera geopolitica della regione, per il petrolio, per l’alleanza con  gli Stati Uniti e per il contrasto con l’Iran, la seconda superpotenza regionale.  Salman seguirà certo la linea di Abdullah. Che si dimostrato abile nel mantenere  le alleanze con Paesi musulmani a maggioranza sunnita e con l’Occidente. E’ morto il re, viva il re.

Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro  Arabia Saudita, la successione del Principe Salman (riproducibile citano la fonte)

Leggi anche: Su Carta e Web la voce delle donne saudite 

 

 

Su carta e via web la voce delle donne saudite

Samar al-Mogren è stata la prima donna saudita a dirigere una sezione non femminile di un giornale. Ma è stata costretta a dimettersi. Ora lavora per il magazine kuwaitiano ’Awan’, con sede negli Emirati Arabi, e milita per i diritti delle donne nel suo Paese, soprattutto per quelli delle detenute. Sull’argomento ha scritto articoli e rapporti ma perché la sua denuncia avesse più forza e più eco ha scelto anche la via del romanzo. Così ha raccontato la condizione e storie di vita delle donne nelle carceri saudite nel libro ‘Donne del peccato’ (Castelvecchi editore per l’Italia).

Samar punta il dito contro la Commissione per la promozione delle virtù e prevenzione del vizio, un organismo nato nel 1926 che si avvale di una vera e propria ‘polizia religiosa’. I diecimila agenti controllano che i precetti dell’Islam wahabita siano rispettati nel Regno, colpendo uomini e donne quando ritiene che idee e comportamenti non siano conformi alla Shari’a. Ma nell’occhio del mirino ci sono soprattutto le donne. I poliziotti religiosi per esempio possono seguirle per strada, chiedere di coprirsi i capelli che spuntano dal velo, a volte il viso. Arrestare chi – secondo loro- si macchia di colpe contro la morale.

Come scrive Mirella Pecoraro nella rivista di letteratura araba ‘Arablit’, “in Arabia saudita la società si destreggia tra un rigido attaccamento alla consuetudini religiose e la modernizzazione tecnica ed economica che ha favorito una lenta e graduale trasformazione dei valori tradizionali. Un Paese di contraddizioni in cui vi è una netta separazione tra la compagine femminile e maschile, sia in ambito privato, che lavorativo o sociale”.

Giornaliste e scrittrici come Samar si battono ogni giorno proprio contro ogni forma di violenza e discriminazione nei confronti delle donne del Regno. “La letteratura infatti – come scrive Isabella Camera d’Afflitto nell’introduzione alla raccolta di racconti di scrittrici saudite da lei curato ‘Rose d’Arabia’ (edizioni e/o) – nei Paesi in cui non esiste ancora una partecipazione politica delle donne, viene trasformata in foro”.

La narrativa diventa quindi un mezzo di espressione e una ‘cassa di risonanza’ per chi si fa paladina di nuove istanze. Di cambiamento, rinnovamento. Come Badriyya Al-Bashar, un’altra scrittrice saudita. Nata a Riyad, un Master in Sociologia presso la King Saud University e un dottorato di ricerca all’ l’Università Americana di Beirut. Badriyya, che ora insegna al dipartimento di Studi sociali della King Saud University, ha scelto infatti la scrittura per raccontare e far conoscere una realtà a volte contraddittoria e comunque misteriosa come quella dell’Arabia Saudita. Illuminate un suo racconto ‘La bidella’, tradotto in italiano nella citata raccolta.

Poi c’è la cronaca certo. C’è Internet che diffonde rapidamente le notizie. Recente (13 giugno scorso) quella delle attiviste saudite che hanno rilanciato la campagna per conquistare il diritto di guidare. Un diritto che non è negato, in questo caso, dalle leggi del Paese ma da tradizioni e consuetudini sostenute da ambienti religiosi e conservatori. Per farsi sentire le promotrici hanno messo in Rete una Petizione con lo scopo di raccogliere firme, prima di presentarla al re Abdullah .

Il 17 giugno scorso la Campagna per le donne al volante ha compito un anno. Tra le firmatarie Sheima Jastaniah, condannata a dieci frustate per aver sfidato il divieto e graziata dal sovrano, nel novembre dello scorso anno. E Manal al Sharif, arrestata nel maggio del 2011 dopo aver messo su Youtube un video che la riprendeva mentre guidava l’auto e rimessa in libertà dieci giorni dopo.

Nella petizione si chiede al Re Abdullah di appoggiare la campagna ‘Guiderò la mia auto’, sottolineando che questo diritto è negato alle donne solo in base “a costumi e tradizioni che non derivano da Dio”. Manal ha scritto sul suo blog “Il movimento è la prima goccia che scatena la pioggia, ma senza donne consapevoli e disposte a pagare un prezzo, e senza il sostegno di tutta la società civile, la lotta sarà lunga e incerta”.

Le battaglie sono comunque difficili quando la tradizione è più forte della legge o della religione stessa, e questo purtroppo accade ancora in molti Paesi musulmani. E non solo.

Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro http://www.lindro.it/su-carta-e-via-web-la-voce-delle-donne-saudite/ (riproducibile citando la fonte).