Primavera araba
Egitto, paese diviso
(Il Cairo). Schierati sulla gradinata della sede del Sindacato egiziano dei giornalisti, a Downtown, intonano slogan: “Vogliamo la caduta del Presidente Morsi”. Sono circa le 18 del 27 marzo. E poco prima ho incrociato un piccolo corteo che scandiva lo stesso slogan, fra rulli di tamburi. La gente si ferma a guardare. Commenta. Qualcuno raggiunge i giornalisti sulla scalinata. “Lavoriamo in varie testate nazionali – racconta Ala Al-Khodairy che fa parte del sindacato – e vogliamo tutti un nuovo governo”. ”Però Mohammed Morsi è stato eletto”. “Certo – conferma- durante le prime elezioni libere del Paese, con la legittimità del voto. E con lui i Fratelli Musulmani. Ma Morsi non sta facendo nulla per i risolvere i gravi problemi economici dell’Egitto”.
Si sa che il negoziato fra il Cairo e il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ristagna. Un balletto. Il Fondo, per concedere il prestito del valore di 4,8 miliardi di dollari, pone la condizione di una vera riforma dei sussidi e del fisco. L’Egitto ha bisogno degli aiuti perché le sue riserve in valuta estera si stanno esaurendo. Con il rischio di gravi disordini sociali. Ala Al -Khodairy, giacca e cartella porta-documenti sotto il braccio aggiunge: “Siamo contrari ai Fratelli Musulmani. Influenzano le decisioni politiche di Morsi. Non sanno governare e temiamo i loro principi religiosi rigidi”.
Una manifestazione come tante, quella di ieri al Cairo, che segue quelle più violente di venerdì scorso, quando sostenitori e oppositori del Presidente Morsi e dei Fratelli Musulmani si sono scontrati davanti alla sede principale del braccio politico della Fratellanza, il Partito Libertà e Giustizia nel quartiere di Moqamma. “C’è qualcosa che non quadra – sostiene Moustafa, 28 anni, guida turistica, una laurea mancata in informatica (ora disoccupato) che ha partecipato alla Rivoluzione contro Mubarak ed è schierato con l’Opposizione Civile. È stato lui ad informarmi per telefono delle manifestazioni del 22 marzo. “Troppa violenza, c’erano anche ragazzini con pietre, bottiglie rotte. Bambini di 8, 10 anni. Poveri. Qualcuno li paga? Dove è finita la nostra Rivoluzione?”. Viene in mente una frase del film ‘La battaglia di Algeri‘ di Gillo Pontecorvo: “Iniziare una rivoluzione è difficile, ancora più difficile è continuarla, e difficilissimo è vincerla. Ma sarà solo dopo, quando avremo vinto, che inizieranno le vere difficoltà”.
Il Cairo sotto una vernice scintillante, anche dal punto di vista culturale, mostra realtà di profonda emarginazione e povertà. A Zamalek, locali che non sfigurerebbero a Parigi e zone con le fogne a cielo aperto vicino al famoso ‘bazar’, Kan al- Khalili. Mente i mendicanti chiedono l’elemosina davanti a negozi lussuosi. E in tutto il Paese coesistono elementi di modernità e di arretratezza. Donne velate passeggiano vicino a ragazze in jeans aderenti e capelli al vento. Manager in giacca e cravatta e bawab, i portieri, in jellabie consunte. Fuoristrada e carretti trascinati dagli asini. Il tutto mescolato ai fermenti democratici risvegliati.
Certo un contesto difficile per un Movimento come quello dei Fratelli Musulmani legato profondamente alla religione. La transizione sembra inceppata. La via democratica si presenta piena di punti interrogativi. Come conciliare i dogmi religiosi con il principio della tolleranza, per esempio? Però questo tentatvo potrebbe anche essere il motivo delle incertezze del Partito Libertà e Giustizia. Forse stanno attraversando una fase di transizione e cambiamento. “Vivendo al Cairo, non riesco a pensarla islamizzata” afferma Ahmad, 24 anni studente di lingue alla Cairo University. “Il pericolo, piuttosto è quello di una rivoluzione per il pane. Di che cosa ho paura? Di un golpe dei militari. Molti di noi hanno creduto che l’esercito, durante la Rivoluzione del 25 gennaio 2011, si sia fatto da parte per la causa. Invece ha abbandonato Mubarak solo per non perdere il potere”.
Anche secondo Moustafa “l’esercito, fra le difficoltà del governo e le divisioni della Opposizione, è l’unico che può trarre vantaggi. Mantiene consensi anche in ambienti insospettabili, perché in quasi tutte le classi sociali, c’è qualcuno che appartiene alle Forze armate. La carriera militare per tanti è l’unica possibilità di promozione sociale”. L’esercito, in Egitto, è una lobby a capo di un vero e proprio impero finanziario: dal mercato immobiliare alle pompe di benzina, dalla produzione dell’olio d’oliva a quella dell’acqua minerale.
Egitto: una pentola a pressione pronta ad esplodere. Contraddizioni, divisioni, richieste. Anche rimpianti. Sono in moltiinfatti a rimpiangere il Raìs Mubarak. Li incontri un po’ dovunque in città. Ma per essere sicuri di parlare con i nostalgici basta andare a bere qualcosa nei giardini dell’Hotel Mariott. L’Hotel, un incanto di archi moreschi e due ettari di giardino, fa parte del palazzo fatto costruire dal Kedivé Ismail, sull’isola del Nilo Zamalek, per ospitare Eugenia imperatrice di Francia invitata in Egitto nel 1860, per l’inaugurazione del Canale di Suez Ancora nell’isola di Zamalek, si trova il Ghezira Sporting Club, dove si ritrovano, da decennni, gli appartenenti alla upper class. Sospirano, affermando che “ora non esiste sicurezza né libertà”. Un’altra accusa che ripetono spesso: “I Fratelli musulmani sono ambigui e opportunisti“. Accuse che, in verità, si presterebbero a molti esponenti politici, anche nostrani.
In taxi la radio trasmette dibattiti politici. Nei caffè, nei negozi, ovunque, si sente criticare il Presidente Morsi. Sembra una ubriacatura. Dopo l’Era Mubarak esiste per la prima volta libertà di espressione. Eppure nessuno sembra ricordare più le censure, gli arresti, la presenza nella vita quotidiana dei cittadini ai tempi del Raìs.
Al Cairo si respira un’aria strana. Un miscuglio di attesa, speranza, disillusione, rivendicazione. Anche indifferenza. Fra il folto gruppetto che assiste alla manifestazione dei giornalisti, ci sono molte ragazze. Chiedo ad una di loro, hijiab azzurro e zainetto sulle spalle, che cosa ne pensa. Alza le spalle “Ci siamo abituati”. “Che fai? Fotografi? Ma se non sta succedendo nulla”.
In esclusiva per Lindro, riproducibile citando la fonte.
per L’Indro: Egitto, paese diviso
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Bahrain, una rivolta di serie B? Cronaca di una discriminazione annunciata
ll gruppo sciita, maggioritario nel Paese, vive come una minoranza ignorata sul piano politico ed economico
“Le proteste continuano ma in maniera pacifica, siamo contrari alla violenza e all’idea di rispondere alla forza con l’uso della forza. Quando a parlare sono le armi non si può tornare indietro” avevano dichiarato, nel settembre scorso a Roma, due parlamentari dimissionari del partito sciita al-Wifaq, Jasin Hussein e Hadi Almossawi. Da allora la situazione nella piccola petromonarchia del Golfo non è migliorata. Anzi. Nell’anniversario del secondo anno dell’inizio delle rivolte (il 14 febbraio scorso) i manifestanti sono tornati in massa in piazza e il governo ha risposto duramente. Sono morti un agente di polizia e un ragazzo, il sedicenne Ali Ahmed Ibrahim Aljazeeri. Le versioni riportate dalle autorità e quelle dell’opposizione sono, ovviamente, opposte. Secondo il quotidiano britannico Guardian, “‘il capo della polizia ha dichiarato che l’agente Mohammed Asif è stato attaccato da un gruppo di rivoltosi con spranghe, pietre e Molotov. I dimostranti negano invece l’attacco e sostengono che la repressione è stata particolarmente pesante negli ultimi giorni‘. Qualcuno, di certo, ha sparato perché il sedicenne Ali Ahmed Ibrahim Aljazeeri è morto colpito da un’arma da fuoco.
In Bahrain, gli sciiti sono in maggioranza (circa il 70% della popolazione) ma vivono discriminati sul piano sociale, economico, rappresentativo. La Casa Reale degli al- Khalifa, sunnita, nonostante la presenza di un parlamento eletto, mantiene infatti il controllo del potere e, in Parlamento, gli sciiti non hanno mai conquistato la maggioranza politica a causa della supremazia dei candidati e dei partititi sunniti. Dopo due anni di proteste e le richieste di riforme, “chiediamo il passaggio a una monarchia costituzionale in cui la maggioranza sia equa”– aveva detto Jasin Hussein – aperture politiche affinché gli sciiti non vengano più penalizzati; interventi per incrementare l’occupazione, la liberazione dei prigionieri politici”. E nonostante la promessa di un ‘dialogo nazionale’, la Famiglia Reale non ha effettuato alcun cambiamento significativo. Sono comunque ripresi, il 10 gennaio, i colloqui fra la Casa Reale e l’Opposizione. Colloqui sospesi nel luglio del 2011, quando l’opposizione guidata dal partito al-Wefaq, aveva appunto abbandonato il tavolo delle trattative.
Pare comunque che delle proteste e delle discriminazioni in Bahrain non importi a nessuno in Occidente. Infatti come l’anno passato, il 21 aprile si correrà il Gran Premio di Formula 1. “Abbiamo programmato un evento lì e quindi saremo lì come l’anno scorso” ha dichiarato Bernie Ecclestone durante una sua recente visita a Dubai.
Chiamata anche la Primavera della Perla (dal nome della Piazza di Manama, la capitale in cui si erano raccolti i primi assembramenti), la rivolta in Bahrain è iniziata nel febbraio del 2011, repressa non solo dalle forze dell’Ordine della Monarchia ma anche dalle truppe inviate dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti. Ma le manifestazioni non sono mai cessate nonostante i morti e gli arresti. Come finirà? Anche in questo caso gli interessi in gioco sono tanti. Un fattore di rilievo, la presenza nel Paese della IV Flotta statunitense. E il silenzio complice degli Stati Uniti sulle rivolte.
E proprio mentre le protesti s’intensificano e si radicalizzano, il ministro degli Interni Sheikh Rashid bin Abdullah al Khalifa, dichiara sull’Agenzia di Stampa Ufficiale BNA che nel Paese è stata smantellata con successo una non ben identificata ‘cellula terroristica‘ . “Otto elementi addestrati in Iran, Iraq e Libano“, precisa. È evidente che la monarchia sunnita sta accusando l’opposizione a maggioranza sciita di ricevere aiuto dall’Iran sciita. Le dinamiche settarie fanno comodo sempre. Anche in Bahrain.
Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro Bahrain una rivolta di serie b – riproducibile citando la fonte.
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Nel turbine della storia- Parte II Le primavere arabe del Mashreq e dei Paesi del Golfo
Una infinità di variabili in Medio Oriente
Abbiamo già scritto quanto sia difficile analizzare eventi ancora in atto. E’ un momento storico in cui nulla è scontato. Terreno friabile, quello delle rivolte dei Paesi arabi. Un fiume in piena che può deviare il corso molte volte ancora. Che ci costringe a continui aggiornamenti e riconsiderazioni. Tentiamo, comunque, di terminare la sintesi prendendo in considerazione l’area del Mashreq e quella dei Paesi del Golfo.
Mashreq Per ora è la zona regionale più problematica a causa della funzione chiave che svolge in geopolitica. Già a rischio prima delle ‘primavere’ per il conflitto senza fine fra Israele e i palestinesi e oggi, più che mai, teatro di scontri non risolti. In Siria è tuttora in corso una violenta guerra civile, fra l’esercito, le milizie del regime e i gruppi armati dei ribelli, complicata dalla presenza di combattenti stranieri jihadisti e di frange terroristiche come il Fronte Al Nusra. La Siria si sta disgregando, come ha dichiarato l’inviato delle Nazioni Unite, Lakhdar Brahimi, “la guerra sta distruggendo il Paese pezzo dopo pezzo”. Una guerra per procura, dove i ribelli sono appoggiati dalla Turchia, dai Paesi arabi del Golfo (Arabia Saudita e Qatar) e dai Paesi Occidentali. E il regime del Presidente Bashar-al Assad, sostenuto dalla Russia, può contare invece sull’Iran e gli hezbollah libanesi. Non possiamo prevedere lo scenario futuro, ma certo una transizione è ancora molto lontana. Ricostruire la Siria sarà una operazione lenta, complessa e costosa in termini umani ed economici. Senza contare il rischio-contagio in Libano e http://www.lindro.it/il-punto-della-situazione-in-giordania/. Finora le primavere arabe hanno spazzato via i regimi cosiddetti laici. Ma se il conflitto dovesse debordare in monarchie come la Giordania, il puzzle mediorientale cambierebbe di nuovo, assumendo forme nuove.
Area Paesi Golfo. Ad eccezione del Bahrein, le Petromonarchie del Golfo si sono ‘salvate’ dalle rivolte. Con il denaro proveniente dalle rendite petrolifere infatti, sono riuscite a tacitare lo scontento dei gruppi di opposizione ‘laica’ che chiedevano riforme. Il meccanismo di questi stati-provvidenza, come scrive Marcella Emiliani “si regge sull’assioma no taxation no representation. Gli autocrati possono cioè permettersi di non concedere alcuna rappresentanza politica nella misura in cui non fanno pagare le tasse”. D’altra parte, l’Arabia Saudita, il Qatar e gli altri stati-provvidenza hanno sempre elargito denaro per garantire la stabilità interna.
Bahrein. Proprio oggi (14 febbraio n.d.r) si ‘festeggia’ il secondo anniversario delle proteste contro la monarchia sunnita di re Hamad al- Khalifa. La popolazione, formata in maggioranza da sciiti (circa il 70%) discriminati sul piano sociale, politico ed economico, rivendica diritti uguali per tutti e un vero Parlamento. Ma la monarchia continua ad attaccare i manifestanti, forte anche dell’aiuto dei militari dello Scudo della Penisola (forza congiunta dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo) e del silenzio complice dell’Occidente e degli Stati Uniti che, ricordiamo, proprio in Bahrain hanno basato la IV Flotta.
Infine, fa parte geograficamente dei Paesi Golfo ma non è uno stato-provvidenza, lo Yemen, dove si continua a combattere. Uno scontro complesso fra clan, esercito e gruppi di Al Qaida al sud, ed esercito e gruppi sciiti Huti al Nord del Paese. Anche in Yemen, due giorni fa (il 12 febbraio) si è celebrato il secondo anniversario delle rivolte contro l’ex presidente Ali Abdullah Saleh fra scontri nella capitale e nel sud del Paese dove le forze di ordine hanno sparato sulla folla. Durante le manifestazioni i dimostranti hanno chiesto che Saleh venga richiamato in patria e processato.
Dopo l’entusiasmo iniziale di fronte alle rivolte arabe, lo scenario appare senza dubbio instabile anche se sarebbe sbagliato affermare che le “primavere sono sfiorite”. Ci troviamo ancora, come scrisse Ryszard Kapuściński nel “turbine della storia”.
Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro: Le primavere arabe del Mashreq e dei paesi del golfo (riproducibile citando la fonte)
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- Le Primavere nell’area del Maghreb
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Nel turbine della storia- Parte I Le Primavere nell’area del Maghreb
Le analisi sono complesse quando i fatti sono ancora in atto e in continua evoluzione. Molte le chiavi di lettura e i punti oscuri
Mi trovavo ad assistere ad avvenimenti insoliti e i contorni di quella nuova mappa non cessavano di affascinarmi” scriveva Ryszard Kapuściński e ancora: “Un impetuoso fluire della storia che scorre e trasforma ogni cosa. Mi sono chiesto fino a che punto noi stessi, immersi come siamo nella corrente, siamo in grado di comprenderne l’intero corso. E fino a che punto possiamo farne una sintesi”. Saggio Kapuściński. Anche noi rispetto al Medio Oriente e alle cosiddette ‘Primavere arabe’ siamo immersi nel pieno della corrente. Analisi e sintesi sono complesse da fare. E in più dobbiamo districarci con la massa di informazioni che arriva dal web, spesso incontrollata e incontrollabile. E quanta retorica nella tesi delle rivolte nate sui Social Network e delle rivoluzioni causate dai tweet? Intendiamoci, il web 2.0 si è rivelato un ‘amplificatore’, uno strumento di diffusione. Ha dato la possibilità di sapere cose che non avremmo saputo.
Ma senza la presenza contemporanea ed esplosiva di altri fattori come la situazione economica e sociale disperata, l’aumento della popolazione giovane e la crescente disoccupazione, i sistemi autoritari sempre più avidi e corrotti e incapaci di rendersi conto delle nuove richieste, la crisi economica in Europa, il fuoco si sarebbe spento in fretta. Non possiamo ancora comprendere l’intero corso di questo fiume in piena, certo. Ma cerchiamo di fare un punto, pur relativo, della storia dei Paesi arabi delle Primavere, dopo la caduta dei regimi (dove ci sono stati); dei cambiamenti; delle transizioni o delle mancate transizioni. Oggi prenderemo in esame l’area del Maghreb.
Nel Maghreb (Marocco, Tunisia, Libia, Algeria, Egitto)
È iniziato tutto qui, nella sponda sud del Mediterraneo. E in questa regione soltanto il Marocco, la monarchia marocchina, ha dimostrato di saper cogliere le richieste di riforme in maniera reale, non solo di facciata. Anche se in tutti e cinque i Paesi si sono svolte libere elezioni. Ma in Libia non c’è di fatto alcuna stabilità e si continua a combattere fra clan e gruppi jihadisti. In Tunisia e in Egitto la transizione si sta svolgendo con difficoltà fra la divisione interna dello stesso partito Al- Nahda (in Tunisia) e lo scontro politico fra i partiti islamici e le ali più radicali.
Sta già fallendo dunque la promessa di un nuovo modello di ‘democrazia islamica’? Secondo Massimo Campanini, docente di Storia dei Paesi islamici all’Università di Trento, esperto dei movimenti radicali contemporanei e autore di ‘L’alternativa islamica‘: “Senza dubbio quanto sta accadendo in Egitto e Tunisia sembra far fallire le promesse di un nuovo modello politico ispirato all’islamismo moderato, modello che la partecipazione dei partiti islamici alle rivolte arabe avevano suscitato. I partiti islamici non sembrano essere in grado di svolgere, all’interno della società tunisina ed egiziana, quella funzione egemonica necessaria per coagulare un ampio consenso popolare dietro le scelte (moderatamente) islamiste di cui al-Nahda e i Fratelli Musulman si facevano portavoce. Anche la scelta del Presidente egiziano Morsi e dei Fratelli Musulmani d’ impadronirsi delle leve del potere ha suscitato più opposizione che consenso, pregiudicando la vittoria elettorale acquisita solo pochi mesi fa”.
Ma in Tunisia e in Egitto va rilevato anche una altro fatto. “Le forze di opposizione laica e di sinistra non hanno mai accettato il responso delle urne che aveva visto vincitori i partiti islamisti“, afferma Massimo Campanini.”L’atteggiamento delle forze laiche e di sinistra non è stato democratico: se un partito conquista il 45 per cento dei voti alle elezioni, deve pesare nel processo costituzionale e istituzionale per il 45 per cento. Quando si è eletta la costituente in Italia nel 1946, in seguito a un processo democratico, i seggi vennero ripartiti proporzionalmente tra le forze politiche. Questo non è uno scandalo. Scandaloso è il fatto che le forze di opposizione non abbiano accettato il responso delle urne. Come scandaloso il fatto che i partiti islamisti abbiano cercato con colpi di mano e forzature, di accelerare i processi a loro favore“. Una via di uscita? “Nuove elezioni (quelle egiziane dovrebbero essere in aprile) per determinare esattamente quali sono le forze in campo. A patto che tutti le accettino poi davvero in maniera democratica, qualsiasi sia l’esito, di sinistra o islamista . E che si lavori per governi di ampia coalizione in grado di portare i Paesi al di fuori delle secche di una crisi economica di cui non si vede la soluzione. E di un processo democratico bloccato”.
I punti oscuri sono tanti. In Tunisia non possiamo attribuire automaticamente l’assassinio di Belaid a una parte politica. Ancora Massimo Campanini “Senza dubbio, il fine era quello di destabilizzare. Ma non sappiamo con certezza chi è stato”. In ogni caso, sono in azione forze oscure. E i black bloc in Egitto? Da dove vengono? Chi li foraggia? Ex-mubarakiani o l’esercito? Esistono forze controrivoluzionarie in gioco ma è difficile nel calore degli avvenimenti capire quali”.
Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro Le primavere nell’area del Maghreb (riproducibile citando la fonte)
Il Fronte instabile dei Paesi delle Rivoluzioni
Intervista al Professor Massimo Campanini
Il fronte instabile dei Paesi delle Rivoluzioni
Perché hanno vinto i partiti islamici, il ruolo delle Petromonarchie del Golfo. La presenza di gruppi terroristici nei Paesi in via di trasformazione.
“Iniziare una rivoluzione è difficile, ancora più difficile è continuarla, e difficilissimo è vincerla. Ma sarà solo dopo, quando avremo vinto, che inizieranno le vere difficoltà”. Sono le parole che – nel film, ’La battaglia di Algeri’ di Gillo Pontecorvo
Primavere arabe:il punto della situazione
’Primavere arabe’: il punto della situazione
Mitt Romney spara a zero sulla politica estera di Obama in Medio Oriente dichiarando, davanti ai cadetti della Virginia Military Institute, che “il Presidente ha fallito nel trattare la questione siriana”. E non lo risparmia neppure riguardo la Libia, l’Iran e l’Iraq. Bellicoso e sicuro di sé, il candidato repubblicano ha affermato che “il fallimento di Washington è totale in Siria, dove più di 30.000 tra uomini, donne e bambini sono stati massacrati dal regime di Assad negli ultimi 20 mesi. La Turchia, nostro alleato, è stata aggredita e il conflitto minaccia la stabilità nella regione”. Affermazioni pesanti, quelle di Romney, che afferma: “L’assalto al consolato americano di Bengasi è stato compiuto dalle stesse forze che ci hanno attaccato l’11 settembre 2001. Per questo, il colpevole non può essere un riprovevole video contro l’Islam, nonostante il tentativo dell’amministrazione Obama di farlo”. Ancora critiche. “L’Iran non è mai stato così vicino alla realizzazione di armi nucleari e in Iraq ha portato a un aumento delle violenze, al ritorno di al Qaeda, all’indebolimento della democrazia”. Promette di fare di meglio, Romney, e si appella alla necessità “dell’America come guida”.
La Primavera non è finita: alla ricerca dell’equazione fra Islam e democrazia, un processo di cambiamento lungo e attualmente in atto.
“Primavere sfiorite”. “La Primavera è diventata autunno”. “Scenari inediti per il mondo arabo”. “La vittoria dell’Islam politico nelle Primavere”. I titoli dei quotidiani di tutto il mondo si sprecano in questo periodo, dopo circa una anno e mezzo dal fermento cominciato il 17 dicembre 2010, con il suicidio a Sidi Bouzi in Tunisia, del fruttivendolo Muhammed Bouazizi. Un atto, un’azione che si è tramutata subito in agitazione a onda lunga e che ha sollevato e scosso i Paesi della sponda sud del Mediterraneo (Egitto, Libia Marocco), continuando inarrestabile il suo cammino a est, in Siria, Yemen, Bahrein.
Anche se la situazione è ancora fluida e i contesti differenti, si possono però fare alcune riflessioni ed evidenziare alcuni punti. In Tunisia, le elezioni sono state vinte dal partito islamista En-Nahdah (Rinascita, Rinascimento). I deputati dell’Assemblea Costituente hanno mantenuto l’articolo 1 sulla laicità dello Stato, che non prevede quindi la Sharia, resistendo alla spinte estremiste dei Salafiti. In Libia, dove è avvenuta ‘l’invasione di campo’ da parte dell’Occidente (Nato) che si è appropriato del processo rivoluzionario con l’intervento militare, la situazione è caotica.
Morto Muammar Gheddafi, cacciata la dittatura, la Libia non ha ancora un governo né un esercito regolare. La sicurezza è affidata a milizie armate e il paese è diviso in fazioni e tribù. Per il 7 luglio è prevista l’elezione di 200 membri dell’Assemblea Costituente.
Yemen. Dopo 22 anni di dominio Alì Abdullah Saleh ha lasciato il Paese sotto la protezione degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita. Ma il potere è nelle mani del suo vice e uomo di fiducia, Abd Mansour Hadi, vincitore di un’elezione presidenziale-farsa (anche se controllate dagli Stati Uniti) in cui era presente lui come unico candidato. Intanto sono riprese le proteste in piazza perché il popolo vuole Salehrientri in Yemen per essere processato. E nel sud del Paese, come scrive Jonathan Steele sul ‘TheGuardian’, “sventolano le bandiere nere di Al Qaeda”. Anzi di Aqpa, nata nel gennaio del 2009 dall’unione della sezione saudita e yemenita dell’organizzazione creata da Osama Bin Laden. “In questa parte dello Yemen – si legge ancora sul ‘Guardian’ – sparisce la presenza del governo. La sicurezza è gestita alle milizie jihadiste e i servizi pubblici sono affidati a un emiro”.
In Marocco re Mohammed IV ha reagito con solerzia alle richieste del popolo che nelle piazze di Casablanca, Marrakech e Rabat scandivano lo slogan “vogliamo un re che regni ma che non governi”. Il re ha quindi emendato la Costituzione e ha sottoposto la riforma il primo luglio 2011 a un referendum popolare. Alle elezioni ha vinto il partito islamista Giustizia e Libertà.
Bahrein. Un caso insolito. Le manifestazioni contro la Monarchia, sedate con l’intervento militare dell’Arabia saudita, si sono svolte nel silenzio dei Media. La maggioranza della popolazione sciita sta chiedendo da oltre un anno alla monarchia sunnita riforme e pari opportunità ai cittadini.
Siria. Il processo storico nel Paese è “più in atto che mai”, anche perché dopo 18 mesi dall’inizio delle prime manifestazioni il presidente Bashar Al-Assad è ancora al potere.
La crisi si è internazionalizzata. E gli eventi si complicano ogni giorno di più. E incalzano. Mentre scriviamo, su richiesta della Turchia, l’Alleanza Atlantica si è riunita a Bruxelles per discutere del recente abbattimento del caccia turco Phantom F-4 da parte della contraerea siriana. “La Nato valuterà la situazione alla luce delle informazioni disponibili. Ankara sosterrà che l’aereo si trovava nello spazio aereo internazionale, mentre il governo di Damasco afferma che il jet era penetrato in quello siriano”. (fonte AGI).
In Egitto, i ragazzi di piazza Tahrir – promotori e anima della Rivoluzione che ha portato alla caduta di Hosni Mubarak, l’ex Generale dell’aviazione rimasto al potere per 30 anni – non hanno saputo trasformarsi da forza propulsiva a organizzazione politica. Così al potere per tutti questi mesi di transizione è rimasto l’esercito, con Mohammed Hussein Tantawi, non solo comandante in capo dell’Esercito, ma ministro della Difesa e della Produzione Militare, nonché presidente della Corte suprema. Carica di cui si è servito per sciogliere nei giorni scorsi il Parlamento (eletto il gennaio) in cui la Fratellanza musulmana godeva di una forte maggioranza. La corte ha anche ammesso al ballottaggio per le Presidenziali il candidato dell’esercito Ahmed Shafik. Le elezioni sono state vinte dal candidato dei Fratelli Musulmani Mohammed Morsy, che rimane però senza il Parlamento, già conquistata dalla Fratellanza.
Fin qui un riassunto dei fatti. Tanti. Non ancora del tutto inquadrabili e definitivi. Una, almeno, la riflessione obbligatoria. La vittoria in Tunisia, Marocco ed Egitto di partiti islamisti e dell’Islam politico rende l’Occidente inquieto. Soprattutto per la grande confusione che si fa tra partito islamista ’moderato’ – confessionale dunque – e movimento estremista, se non terrorista. Tanto rumore per nulla dunque, per parafrasare Shakespeare?
Secondo la tesi formulata dallo studioso Olivier Roy, sì. Roy, infatti, già nel celebre saggio ’L’echoc de l’Islam politique’ affermava che il “mondo arabo vive ormai in una fase post-islamista derivata dal fallimento dell’Islam politico. Una fase che ha spezzato il legame fra impegno religioso e rivendicazione politica”.
Lo studioso Massimo Campanini, autore del saggio ’L’alternativa islamica’, sostiene invece che per quanto la tesi del post-islamismo “contenga una parte di verità perché durante le manifestazioni tunisini ed egiziani chiedevano ’Pane, giustizia e libertà’, quindi rivendicazioni del tutto laiche. Tuttavia, quando il movimento rivoluzionario si è istituzionalizzato l’Islam è tornato alla ribalta”. Ma c’è Islam e Islam. E senza dubbio la vittoria dei partiti islamisti è avvenuta soprattutto per ragioni sociali e politiche (le organizzazioni dei Fratelli Musulmani o di Ennahda, hanno sempre svolto un’azione sociale, di supporto e aiuto alla popolazione più povera) e identitarie.
E il 70% della popolazione nel mondo arabo ha meno di 25 anni. Una nuova generazione che fa comunque parte della società globale e rivendica una democrazia declinata secondo le proprie esigenze e non imposta dall’Occidente. Anche questi giovani, o almeno una parte, hanno votato per i partiti islamici. Dovranno essere loro, come protagonisti dell’Islam politico (post o comunque rinnovato) a dover cercare l’equazione fra Islam e democrazia. Cambiamenti, contraddizioni, incertezze. Ma la regione mediorientale sta vivendo un momento storico. È in fase di transizione. L’Occidente non deve trarre conclusioni affrettate. E soprattutto non deve intervenire per guidare i processi di cambiamento, piegandoli alle proprie visioni.
Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro La primavera non è finita (riproducibile citando la fonte)
Dopo le Primavere arabe, Parlamenti più “rosa”
Quote rosa, si o no ? Uno sguardo ai recenti risultati in Algeria, Tunisia ed Egitto.
In politica, ’quote rosa’ sì oppure no? In Italia, in questi ultimi anni, le diverse proposte di legge hanno provocato polemiche e schieramenti trasversali favorevoli ed apertamente contrari. Secondo molte italiane infatti, le ’quote rosa’ – percentuali minime fissate per legge di presenza femminile imposte all’interno di organi elettivi – riflettevano un deterioramento della posizione della donna. Se c’è parità infatti, la presenza femminile nel Parlamento dovrebbe essere qualcosa di ovvio, così come è per la rappresentanza politica maschile.
Ma qual è la situazione nei Paesi arabi coinvolti nelle Primavere? Che cosa è cambiato per le donne in politica? In Algeria, il presidente Abdelaziz Bouteflika, dopo aver ha introdotto le ’quote rosa’ in Parlamento (nel novembre 2011) ne ha visto i risultati dopo le elezioni del 10 Maggio scorso. Le elezioni – vinte dal FLN (Front de Libèration Nationale) del presidente che ha ottenuto 220 dei 462 seggi- hanno portato infatti ’alla vittoria’ ben 148 parlamentari donne, cioè il 31,39% dei deputati. Un terzo dell’Assemblea Nazionale.
Nel Paese le donne rappresentano il 53% della popolazione, e sono già da tempo presenti nel mercato del lavoro occupando anche posizioni di rilievo in società pubbliche e private. Il codice di famiglia algerino non è adeguato però e le neo-deputate hanno già ricevuto molte richieste perché si uniscano, superando barriere politiche, nell’interesse delle donne. Uno scenario che punta ad un’azione unitaria per una leadership femminile nel mondo arabo.
E le ’quote rosa’ sono state istituite anche in Egitto. La nuova legge (approvata nel giugno 2011) definisce il limite minimo di 64 posti ’al femminile’ disponibili su 508. Attualmente le donne in politica sono poche. E la proposta delle quote rosa obbligatorie è stata fortementecaldeggiata dal Consiglio nazionale per le donne. Lo slogan promozionale: “Compagne nella vita, compagne in Parlamento”. Così come in Italia, la legge ha provocato aspri dibattiti.Per i sostenitori è l’unico modo per garantire la presenza femminile , per i detrattori solo un modo per ’ghettizzare’ le donne egiziane.
In Tunisia, le elezioni del 23 ottobre scorso le ha vinte il partito islamista, En-Nahdah: la tornata elettorale ha visto una buona rappresentanza politica femminile. Presenti al 50 per cento nelle liste elettorali grazie ad una legge ’post-primavera’ più avanzata di quella italiana, le signore della politica tunisina, sono state presentate però soltanto per il 5% come capilista.
Insomma, la storia si ripete. E’ necessaria parità nella vita, nel lavoro, nella politica. Cioè, uguaglianza. Stessi diritti, stessi doveri, stesse opportunità. C’è ancora molto da fare, e non solo nei paesi arabi. Donne colte, preparate, istruite. Ma riusciranno ad emergere in politica? In questo caso, meglio non guardare all’Italia come esempio.
Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro http://www.lindro.it/dopo-le-primavere-arabe-parlamenti-piu-rosa/ (riproducibile citando la fonte)
Marocco, emergenza famiglia.
Si aspetta, si discute, si polemizza. Si spera, in Marocco, ma anche in Italia – fra la Comunità marocchina – che il governo, guidato dal partito islamista Giustizia e Libertà (PJD) modifichi l’articolo 475 del proprio codice penale. Un articolo che punisce lo stupro con una pena da 5 a 10 anni di carcere, a meno che lo stupratore non sposi la donna di cui ha abusato, salvando così l’onore della famiglia.L’articolo di legge per cui si era suicidata, dopo soli cinque mesi di matrimonio, il 10 marzo scorso, Amina Filali.
Dopo la violenza, infatti, il padre si è detto costretto a combinare il matrimonio della figlia con lo stupratore. Ma Amina non ha mai sopportato quell’obbligo.Il gesto estremo ha portato alla ribalta il problema del diritto di famiglia in Marocco (e in altri Paesi Arabo –musulmani), ma anche la considerazione di quanto, spesso, la tradizione ’sia più forte’ della legge stessa. E’ indubbio che questa norma debba essere modificata, ma perché abbia davvero ’presa’ sulla gente, non dobbiamo dimenticare che, a cambiare, deve anche essere la mentalità della società. Il Marocco, fra l’altro, ha uno dei codici di famiglia, dal 2004, più all’avanguardia in merito alla tutela della donna, ma – per la sua stessa natura- è un codice che tocca nel cuore la società (ogni società).
E le riforme in questo campo sono sempre state difficili. Non solo nei Paesi Musulmani. Ci siamo forse dimenticati le battaglie e i contrasti in seno alla società italiana per inquadrare giuridicamente le coppie di fatto e le coppie omosessuali? A questo punto è forse utile ricordare – a differenza di ciò che molti occidentali credono – che il diritto musulmano già dal 1800, era stato cambiato e si era uniformato ai codici europei. Anche se l’adeguamento alle leggi europee è avvenuto soprattutto nel campo del diritto commerciale e civile.
Dopo il tragico gesto di Amina Filali, Moustapha Khalfi, Ministro della Comunicazione e Bassima Hakkaoui, Ministro della Famiglia e dello Sviluppo Sociale (fra l’altro, l’unica donna fra i 29 ministri del nuovo governo) hanno tenuto una posizione ambigua,promettendo una revisione dell’articolo 475, ma di fatto non hanno annunciato fino ad oggi un concreto progetto di riforma. Ed è proprio di poche ore fa la notizia riportata dal ’Washington Post’ secondo cui il Ministro Bassima Hakkaoui, ha dichiarato che l’articolo 475“ non può essere abrogato da un giorno all’altro”, solo sotto la pressione della opinione pubblica mondiale.
Sembra che il Ministero della Giustizia abbia intenzione di studiare una completa revisione del codice penale ( che risale al 1962). Ma sulla revisione dell’ articolo 475, il Ministero assume una posizione cauta, dichiarando: “solo se la società marocchina la vuole”.
C’è ancora tanta strada da fare ha dichiarato Sarah Leah Whitson, direttrice della sezioneMoyen-Orient et Afrique du Nord à Human Rights Watch. “ L’articolo 475 non è che la parte visibile dell’iceberg. Malgrado le riforme del codice di famiglia del 2004, le donne non sono ancora protette dalla legge quando sono vittime di violenza”. Ma la società è pronta a proteggerle?
Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro Marocco, emergenza famiglia (riproducibile citando la fonte)