Antonella Appiano

Chi sono i Salafiti

Islam e politica

Qual è il loro progetto politico? Storia di un movimento tornato alla ribalta dopo le Primavere arabe.

 

Edward Said ne ‘l’Orientalismo’ spiega come anche la cultura si pieghi a rafforzare gli stereotipi sull’Islam. Stereotipi amplificati dalla non-conoscenza della storia e dalla superficialità dei media. In questi giorni termini come salafiti, jihadisti, partiti islamici, si rincorrono dalle pagine dei giornali ai telegiornali spesso senza una corretta spiegazione. Generando confusione.

Islam politico e guerra dei media

L’Egitto e la Tunisia dopo la fine delle autocrazie ’laiche’

Le vittorie dei Fratelli Musulmani e di En-Nahda sono un insuccesso? E intanto in Siria continua la battaglia mediatica.

Proteste e scontri in Egitto e in Tunisia. Scelte sbagliate del presidente Morsi che dopo essere stato ’acclamato’ per la mediazione – conclusa con successo – nelle trattative della tregua tra Israele e Hamas, è contestato dalla Piazza. Certo, una mossa poco saggia quella di reclamare i pieni poteri. E di imporre una nuova costituzione che riprende pesantemente la Shari’a. Gli egiziani hanno già dimostrato di non essere più disposti ad accettare dittature e il Paese sta vivendo una grave crisi economica e sociale. Ma il percorso da una autocrazia a un governo che garantisca ’democrazia’, sia pure declinata secondo l’Islam politico richiede tempo. Passaggi obbligati. Forse è presto per dire che la partita è persa. Anche in Tunisia dove, ricordiamo, dopo la cacciata di Ben Ali, ha vinto un governo di coalizione con a capo il partito religioso En-Nahda (Rinascita), sono ripresi scontri e proteste. Però En-Nahda deve mediare con il gruppo più radicale che fa parte della coalizione. E i compromessi storici, si sa, non sempre hanno successo. Certo il momento è importante: se fallisce anche l’Islam politico che cosa succederà in questi Paesi così vicini all’Italia e all’Europa? L’instabilità è un lusso che non possiamo permetterci.

Intanto non si profila nessuna soluzione per la Siria. Il generale prussiano Otto von Bismark diceva: “Non si mente mai come per una battuta di caccia, una donna o una guerra”Siria e armi chimiche. Quale verità? In questi giorni le dichiarazioni e le smentite riguardo all’arsenale chimico in possesso dalla Siria – e che potrebbero essere usato contro i civili – si rincorrono. La ‘BBC’ (attingendo a fonti del Foreign Office) riporta che la leadership di Damasco è pronta farne uso. Il regime dichiara invece di essere contrario all’uso di armi a base di gas contro la popolazione. Anzi, accusa il gruppo jihadista Fronte al-Nusra di controllare una fabbrica di cloro.

Sul terreno appare ormai chiara l’avanzata degli oppositori armati. Non solo al confine con la Turchia, ma anche intorno a Damasco. Gli Stati Uniti continuano ad esprimere la preoccupazione che le armi finiscano in mani estremiste. Ma questo, in parte, è già avvenuto. In uno scenario post-Assad quindi le incognite sono tante. I vari gruppi – o parte dei gruppi che compongono la resistenza armata – potrebbero continuare a combattere. La nuova coalizione eletta a Doha, è davvero in grado di controllare il territorio? Di far deporre le armi? E si dibatte sul ruolo della Russia. Sta allontanandosi dal regime? Mentre nel nord del Libano, a Tripoli, si acutizzano gli scontri fra fazioni pro e contro Bashar Al-Assad. Fonti libanesi parlano di una quindicina di morti nell’ultima settimana.

Dal web continuano ad arrivare tweet e video di cui è impossibile accertare la fonte. Anche i bambini non sfuggono alla strumentalizzazione. Bambini avvolti da bandiere del regime o dell’esercito siriano libero che guardano in telecamere, recitando slogan. E’ davvero l’immagine più triste.

di Antonella Appiano, in esclusiva per L’Indro: Islam politico e guerra dei media, riproducibile citando la fonte.

 

Storia di Ghilan. Vittima della guerra in Iraq

Il riscatto e una nuova vita al Cairo grazie anche alla passione per la musica

Un ragazzo che non ha ceduto al sentimento dell’odio e della vendetta e si creato un futuro diverso.

“L’odio genera solo odio”, scrive Tiziano Terzani in ’Lettere contro la guerra’ e “l’odio si combatte solo con l’amore”. Ghilan Ibrahim, oggi 24enne, lo ha fatto. Vittima, come moltissimi iracheni, di una tragica esperienza che ha per sempre cambiato la sua vita, Ghilan è riuscito a superare il dolore grazie allo studio e all’amore per la musica. Secondo il calcolo di Iraq Body Count, una organizzazione non governativa, dall’inizio della invasione e occupazione del Paese nel 2003 (operazione Iraqi Freedom), da parte di una coalizione guidata dagli Stati Uniti, fino all’estate del 2004, sono stati uccisi più di 12.000 civili iracheni. Chissà se nel tragico conteggio rientra anche la famiglia di Ghilan, che proprio nell’estate del 2004 (il 24 giugno) è stata annientata a un check-point americano, all’uscita dalla città di Baquba a capo del Governatorato di Diyala, a nord est di Baghdad: la madre, 5 sorelle, un fratellino, uno zio. Sono sopravvissuti solo Ghilan, il fratello maggiore e il padre, perché non si trovano nell’automobile crivellata dai colpi di arma da fuoco dei soldati statunitensi:. Soldati “stanchi e tesi” come scriverà l’unico giornale Usa, il ’Chistian Science Monitor’ che raccontò l’episodio.

“Ma lo definì un incidente innocente perché i militari avevano sparato pensando che l’auto trasportasse terroristi”, racconta Ghilan al telefono. “Alla guida c’era mio zio Ahmed al suo fianco mia mamma Sa’ida, con in braccio Yousif, il mio fratellino. Dietro le cinque sorelle: Amaleed, Aghareed, Anaheed, Juman, Afnan. Come hanno potuto non vederle? Un’automobile carica di donne e bambini…”.

E c’è stata una inchiesta?

No, ma ’Aljazeera Channel’ dedicò un servizio alla vicenda perché aveva ricevuto il video di un testimone oculare. Tragedia nella tragedia: ho saputo che la giornalista che ha presentato il servizio, due anni più tardi, nel 2006, è stata rapita e uccisa in Iraq, da sconosciuti, mentre stava seguendo una indagine. L’esercito americano ammise ciò che aveva fatto, ma non c’è stato un processo. Ha ’rimborsato’ a mio padre il valore dell’automobile e il denaro che mia madre portava con sé.

Come mai tuo padre, tu e tuo fratello non eravate con il resto della famiglia?

La zona dove vivevamo era molto pericolosa. Combattimenti ogni giorno, guerriglia, violenze, saccheggi, stupri. Le più esposte erano le donne, le ragazze. Mio padre aveva pensato quindi di mandarle a Baghdad che riteneva più sicura. Aveva consegnato a mia madre quasi tutti i nostri risparmi. Ma sulla strada per la capitale, all’uscita di Baqubah, c’era un posto di check-point. Mio zio deve aver perso il controllo dell’automobile, e l’auto ha bloccato la via. I militari hanno cominciato a sparare, a sparare fino a quando l’auto non ha preso fuoco. Un testimone oculare ha raccontato che la donna seduta a fianco del guidatore era riuscita a rotolare fuori, ma che i soldati hanno continuato a sparare. E’ l’immagine più dolorosa.

Eri studente allora o lavoravi?

Studente. Frequentavo l’High School ed ero anche giocatore di scacchi. Ho continuato. La concentrazione mi aiutava a non pensare. Pochi mesi dopo la perdita della famiglia, ho vinto il Campionato studentesco iracheno, poi ho partecipato a quello mondiale, in Grecia. Mi sono buttato a peso morto nello studio per non cedere allo sconforto. E finito il liceo, l’anno seguente sono stato accettato al College di Medicina. Ma in Iraq non c’era ancora sicurezza. Mio padre era preoccupato ha insistito perché lasciassi il Paese. Così nel 2004 mi ha accompagnato in Egitto. E’ stato con me due mesi, mi ha aiutato a sistemarmi e poi è ritornato in Iraq. Non voleva tagliare le sue radici.

E ora? Che cosa fai? Dove vivi?

Vivo al Cairo. Ho continuato a studiare, mi sono laureato quest’anno in Informatica. E mi sono anche dedicato alla musica. Ho abbandonato gli scacchi, però. Quasi tutti i miei compagni di squadra sono morti. Fa male. Ogni tanto penso a mia sorella Aghareed che aveva partecipato alla conferenza giovanile per i Diritti Umani proprio nel 2004, poco tempo prima di essere uccisa. O rivedo la mia sorellina Afnan mentre legge una poesia sull’Umanità. Immagini. Squarci di colore e sentimento. Sento le risate, i bisbigli. Erano belle persone. E sono morte in una manciata di secondi. L’amore per la musica mi ha aiutato molto a stemperare la sofferenza. A ritrovare la serenità. Cinque anni fa mi sono iscritto alla Arabic oud house e questo novembre ho ottenuto il diploma. Ora insegno. L’oud è un antico strumento musicale arabo. Amo la sua melodia. Comporre e suonare mi trasportano in un altro mondo. Un mondo dove non esistono violenza, disperazione e angoscia.

di Antonella Appiano, in esclusiva per L’Indro: Storia di Ghilan. Vittima della guerra in Iraq, riproducibile citando la fonte

 

Un giorno qualunque a Damasco.

Testimonianze dalla Siria nell’era della narrazione Web.2.0

“Ci stiamo abituando a vivere senza sapere che cosa accadrà domani. Il sentimento più forte: la tristezza”

 

Non lo scriveremo mai abbastanza. Per onestà e chiarezza. Siamo sommersi ogni giorno da video, fotografie, tweet, nuovi account Facebook che contengono informazioni quasi sempre impossibili da accertare. Le nuove guerre, le nuove rivoluzioni oggi si combattono anche così, a colpi di Tweet. Un cambiamento che abbiamo potuto seguire bene durante l’Offensiva israeliana Pillar of Cloud, a Gaza, come analizzano in maniera documentata, Veronica Orrù e Matteo Castellani Tarabini. Ma Social Media a parte, esistono ancora quelli che un reporter dovrebbe sempre avere e tenere attivi: i contatti. Le relazioni nate sul posto, con persone di cui si conosce l’identità. Collegamenti che a volte si rallentano ma che sono facilitati proprio dai Nuovi Media, come scrive Augusto Valeriani in ’Twitter Factor’ “molti reporter della vecchia guardia sono scettici eppure anche in Pakistan, Afghanistan alcuni politici e guerriglieri sono presenti sul web”. Un caso interessante riportato sempre da Orrù e Castellani, è l’account Twitter @AlqassamBrigade, del braccio militare di Hamas. E ci sono skype e la posta elettronica. Proprio ieri ho ricevuto via e-mail una testimonianza da Damasco. Conosco la persona da tempo, anche se da agosto non aveva più risposto alle mie lettere. Ma, nonostante questo, non sono a Damasco ora, non posso accertare di persona. Credo nel Web.2.0 ma anche all’importanza di essere sul posto. Un reporter può farsi aiutare dalla rete ma non esserne sostituito.

Quindi riporto la testimonianza di Ridha (nome di fantasia), consapevole che è una testimonianza che non ho raccolto guardandolo negli occhi. E che è una testimonianza che esprime l’opinione di una persona, non di tutti i siriani. Ho promesso di mantenere l’anonimato e quindi non riporterò né la sua età né la professione. Solo che è musulmano sunnita e vive a Damasco Scrive.

Ci stiamo abituando a vivere senza sapere che cosa accadrà domani. Il sentimento più forte: la tristezza. La mia famiglia ormai è divisa. Due fratelli si trovano a Dubai. Una sorella in Giordania con la famiglia. I miei genitori sono troppo anziani, non vogliono lasciare il Paese e io rimango con loro. Ricordi quando ti dicevo che la guerra non sarebbe mai arrivata a Damasco? L’ultima volta che ci siamo visti, a luglio, siamo ancora andati a bere il caffè nella città vecchia. Ma ora, dopo l’attentato a Bab Tuma, non mi sento più sicuro neppure lì. Alla sera, dopo le 8, la città è deserta. Nessuno per le strade. Non passa un taxi. In certi quartieri la gente continua a vivere normalmente. O si sforza di farlo. Gli uffici sono aperti, le scuole anche. Dobbiamo convivere con i colpi di cannone, le sparatorie, i posti di blocco. Sai che, a costo di apparire vigliacco, non mi sono mai schierato. Né da una parte né dall’altra. Guardavo i rifugiati che arrivavano qui, nella capitale, dalle altre parti del paese con compassione. Li riconoscevi, avevano un’aria sperduta. Come guardavo i profughi iracheni. E ti dicevo:”Mai come loro”:
Adesso sono io ad essere sperduto. Quando sono in auto, in colonna, perché la circolazione è rallentata dai posti di blocco, quando le vie d’accesso alla città sono chiuse dai carri armati. Così come certe vie del centro. Quando passo davanti a un’auto e ho paura che esploderà. Quando vedo le barriere di filo spinato e sacchetti di sabbia. E penso: è guerra.
Stanno costruendo un muro intorno all’area residenziale di Al Malki
(dove vive il Presidente Bashar al- Assad ndr). Per proteggerla dagli attentati? Non so. Oggi (ieri 28 novembre ndr)avrai letto, del doppio attentato dinamitardo nel quartiere di Jaramana, che conosci bene (alla periferia sud-est, abitata soprattutto da drusi e cristiani ma anche da musulmani e iracheni ndr). Non ho notizie precise però, solo quelle della tv di Stato. Quanti morti.
Parliamo tanto fra noi. Parliamo in famiglia, con gli amici. Della Nuova Coalizione nata a Doha.Di uomini d’affari, politici, anche guerriglieri. Un gruppo eterogeneo certo. Sappiamo che la Coalizione è sostenuta dalle monarchie del Golfo, dagli Stati Uniti, dalla Francia, dalla Turchia. Conoscevo l’Imam Moaz al Khatib. Se chiudo gli occhi lo rivedo ancora nella moschea degli Omayyadi mentre guidava la preghiera. Meglio lui di Ghalium… almeno non è una persona che vive all’estero da anni. Ma saprà davvero relazionarsi con le forze in campo? Il movimento di opposizione sta crescendo. Per forza, altrimenti sarebbe possibile questo combattimento continuo? Gli oppositori hanno preso l’aeroporto militare di Marj al-Sultan e l’esercito siriano ha bombardato quartieri alla periferia di Damasco: Kadam, Tadamone. Il centro storico non è stato ancora colpito ma se s’infiltreranno quelli dell’Esercito libero? Le milizie private armate aumentano, in una confusione che non so descriverti. Certo ormai non si torna più indietro. C’è stata una frattura fra i cittadini e chi è al potere. Troppa violenza, troppo dolore. Ma non ti nascondo che siamo anche in tanti ad avere paura di un futuro che non appare rassicurante. Di questa rivolta che non sembra offrire garanzie. Ho incontrato persone piene di ideali fra gli oppositori ma anche gente violenta e vendicativa. Se la maggioranza degli omicidi e dei gesti criminali è stata compiuta dalle forze di sicurezza, sappiamo tutti (abbiamo testimonianze dirette) che gli stessi episodi stanno aumentando contro i militari e anche i civili sospettati (a torto o a ragione) di essere dalla parte del regime. I giornalisti siriani, per esempio. E’ civile uccidere un giornalista? Perché nessuno in Occidente ha cercato veramente una soluzione politica? Perché questo strazio? I mie genitori sono anziani e non vogliono lasciare Damasco. Resto con loro. Che Dio ci protegga
”.

Poche ore fa Le Monde’, ’AFP’ e ’Reuters’, tra gli altri, hanno annunciato l’interruzione delle comunicazioni in alcune regioni della Siria su segnalazione di alcuni ribelli. Sarà una delle ultime mail ricevute da Damasco?

di Antonella Appiano Un giorno qualunque a Damasco
In esclusiva per Lindro Riproducibile citando la fonte

Operazione Pace in Medio Oriente?

Tra attacchi, rivolte, tregue, stabilità e instabilità regionali, cambiamenti strategici, si aprono spiragli per processi politici stabili. Sperando che non sia l’eterno gioco dell’oca.

L’iniziativa che non è riuscita in Siria ai due inviati speciali dell’Onu e della Lega Araba, Kofi Annan e Lakhdar Brahimi, è stata raggiunta con successo dall’Egitto del Presidente Morsi. Il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, lo ha ringraziato “per essersi assunto la leadership che ha fatto di questo Paese un pilastro per la pace e la stabilità regionale”. Ma neppure Mohammad Morsi, leader dei Fratelli Musulmani e primo Presidente salito al potere in Egitto attraverso elezioni democratiche, avrebbe forse potuto tagliare il traguardo senza l’arrivo al Cairo, ’fulmineo’ e inaspettato, di Hillary Clinton in rappresentanza degli Stati Uniti, da sempre vigili protettori d’Israele. Un segnale forte per Netanyahu. Un altro segnale, la vittoria dell’Islam politico che, senza dubbio, ha cambiato gli equilibri strategici regionali. Oltre alla perdita della Turchia: un alleato che Israele, si è ’giocato’ nel 2010 dopo l’incidente della Mavi Marmara, la nave turca con gli attivisti che portavano aiuti proprio alla Striscia di Gaza. O forse ’Bibi’ ha deciso che in questo momento gli conveniva “provare a fare politica anziché guerre” come gli ha suggerito in una lettera aperta David Grossman? (’Repubblica’ del 6 novembre 2012)

Tregua. Tregua sperata, rinviata, di nuovo raggiunta. Una tregua che invece – per ben due volte – era stata sfiorata, ma subito disattesa in Siria, dove proseguono i combattimenti fra le forze fedeli al Regime e gli oppositori. Una lotta sempre più feroce, senza esclusione di colpi che non sembra trovare una risoluzione anche dopo la nascita, a Doha, della nuova Coalizione dell’Opposizione siriana. La coalizione ha già ottenuto il riconoscimento di gran parte dei paesi occidentali, Francia in testa, ed è guidata dallo sceicco sunnita Moaz al-Khatib, ex imam della moschea degli Ommayyadi di Damasco, che non ha mai nascosto le simpatie per la Fratellanza Musulmana.

Mentre alcuni Paesi si assestano e in Siria continua la cruenta guerra civile, la Giordania dopo due anni di proteste ’soft’ sembra vacillare. Nelle ultime settimane infatti i manifestanti oltre a esprimere malcontento per i provvedimenti economici per la liberalizzazione dei prezzi, cominciano a chiedere la caduta del regime e di re Abdallah. Le proteste, sostenute dai Fratelli musulmani e dai partiti di sinistra, sono state represse con violenza dalle forze dell’ordine. Abdallah riuscirà a mantenere il potere? La partita è aperta.

Tregua raggiunta dunque fra Hamas, che governa la Striscia di Gaza, e Israele. Ma adesso arriva la parte più difficile: trasformare la tregua in un reale processo politico. Altrimenti si continuerà a vivere sul filo del rasoio e sarà sufficiente un piccolo incidente per tornare ai banchi di partenza. Come nel gioco dell’oca. Insomma vorremmo che il sottotesto della parola ’tregua’ fosse ora ’processo di pace’. Quando nessuno più sembrava crederci, forse è possibile.

di Antonella Appiano, in esclusiva per L’Indro Operazione Pace in Medio Oriente? , riproducibile citando la fonte.

 

Urban Cairo. La Primavera Araba dei graffiti” di Elisa Pierandrei

 

Con settecento parole, fotografie e una mappa interattiva, Elisa Pierandrei, giornalista specializzata in Media e Arti visive del Mondo Arabo, è riuscita raccontare in maniera diversa e accattivante la rivolta egiziana.

Un E-book che trasmette emozioni e sensazioni non solo perché l’autrice ha vissuto al Cairo, durante i giorni della Primavera e ha “sentito la piazza”, la celebre Piazza Tahrir, simbolo delle proteste, delle mobilitazioni, della speranze e delle aspirazioni di un popolo. Ma soprattutto per ché ha scelto un filone narrativo inconsueto: quello degli artisti di strada, writer e designer. Un libro-reportage quindi, ma anche un diario di viaggio dove parole e immagini si fondono narrando la Primavera egiziana attraverso le vite e le opere degli urban artists. Teenager, ragazzi, trentenni come El Teneen,  autrice di un graffito che raffigura  una scacchiera, su cui l’unica pedina ad essere rovesciata è quella del Re. Keizer e tanti altri che l’hanno illustrata sui muri del Cairo. Forme espressive di dissenso e artisti che l’autrice ci fa conoscere grazie alle schede informative e alle foto delle opere, raccolte durante i numerosi viaggi negli ultimi due anni al Cairo.

Infatti la corrente artistica dei writers egiziani, era nata in sordina già nel 2007, nei quartieri “alti” del Cairo come Heliopolis e Zamalek, molto prima quindi della rivoluzione del 25 gennaio 2011. Episodi isolati che si manifestano come forza dirompente nel gennaio dello scorso anno, grazie anche alla spinta dei bloggers e degli attivisti. “Dopo settimane su Twitter e Facebook, un gruppo di grafici e artisti pubblicitari della nuova generazione digitale, ha deciso di lasciare la ” piazza virtuale” per la strada “reale”. E esprimere il dissenso direttamente sui muri del Cairo, racconta Elisa Pierandrei. Il libro testimonia anche questa scelta e crescita. Una corrente artistica “impermalente”. Molti disegni, murales purtroppo non ci sono più. Sono stati cancellati dalle forze controrivoluzionarie. Per riapparire magari di nuovo, in forme diverse. Ma e Elisa Pierandrei ha avuto l’idea vincente di raccoglierli una mappa interattiva: oltre trenta opere, localizzate nelle strade del Cairo. Per non dimenticare  le testimonianze di una ricca stagione culturale perché come ha dichiarato Aung San Su Kyi, “l’autentica rivoluzione è quella dello spirito, nata dalla convinzione intellettuale del cambiamento”.

E queste immagini della rivoluzione sono sorprendenti. Commoventi e incisive allo stesso tempo. Un distillato puro e tagliente di satira politica  e sociale contro Mubarak e i simboli del regime. Un “Arma beffarda della guerriglia urbana”, li definisce nella Prefazione, Stefania Angarano, gallerista italiana residente al Cairo. In continua evoluzione.  Se durante i mesi successivi alla caduta di Mubarak, infatti, la creatività e la vivacità artistiche si sono sviluppate in armonia ora, dopo la controversa elezione di Morsi, molti egiziani dicono:” Al-thawra mustamirra”….

Urban Cairo. La primavera Araba dei graffiti, di Elisa Pierandrei, Informant Editore ottobre 2012  – Euro 2,99 – e-book disponibile per tutti i principali e-reader.

Siria: Opposizione Unita Cercasi

A Doha l’Opposizione siriana cerca “un centro di gravità permanente” con l’aiuto degli Stati Uniti. Le pressioni del segretario di Stato Hilary Clinton e il piano di Riad Seif.

 

Dopo Burthan Ghaliun e il curdo Abdel Basset Sieda (rispettivamente ex presidente e presidente del Consiglio Nazionale Siriano, Cns) ora sulla scena dell’Opposizione, a proporsi come leader, appare l’industriale ed ex parlamentare Riad Seif. Il suo piano: creare una squadra di 50 rappresentanti, scelti fra i comandanti militari dell’Esercito libero e i capi delle zone in mano ai ribelli, in Siria, e fra i membri del Cns, che risiedono all’estero. Gli Stati Uniti, che appoggiano Riad Seif, premono perché durante i lavori venga eletto una specie di direttivo, in cui i militari – che stanno operando sul campo – siano in numero maggiore rispetto agli esiliati del Cns.

Circa 400 rappresentanti della dissidenza provenienti da vari gruppi, dalla Siria e dall’estero, si sono riuniti per raggiungere un obiettivo indispensabile: una formazione unita con la quale la Comunità Internazionale possa rivolgersi. Impresa difficile: alla mega conferenza di Doha, capitale del Qatar (si è aperta il 4 novembre e dovrebbe svolgersi in 5 giorni) ci sono troppe fazioni portatrici di programmi diversi e differenze ideologiche. E due gruppi importanti , il Corpo nazionale di coordinamento e il Fronte democratico nazionale, non si sono neppure presentati all’ appello.

Il CNS (Consiglio Nazionale Siriano), fino ad ora ha rappresentato la piattaforma principale dell’Opposizione ed è formata soprattutto da esiliati: intellettuali, accademici e membri della Fratellanza musulmana. Ma il Cns non ha saputo dare, fino a ora, prove di stabilità ed efficienza. Il Segretario di Stato Hillary Clinton ha addirittura dichiarato (‘Reuters‘ 31 ottobre 2012) che il Consiglio Nazionale siriano, basato all’estero, “non può arrogarsi il titolo di leader dell’opposizione, ma solo far parte di un fronte di opposizione più largo che includa gente che vive in Siria e altri che abbiano la necessaria legittimità per farsi ascoltare” .

Per questo il programma di Riad Seif prevede di mettere il Cns in secondo piano, creando appunto una leadership in cui i suoi membri sarebbero in minoranza rispetto ai militari dell’Esercito Siriano Libero, il principale ma non l’unico gruppo armato che combatte sul terreno contro l’esercito regolare del regime. Il Cns è disposto a mettersi in disparte? Non sembra. Già durante il primo giorno del convegno, ha criticato gli Stati Uniti per l’ingerenza e il suo presidente, Abdel Basset Sieda, ha dichiarato (fonte ‘Associated Press’) che “pur non avendo respinto in pieno la proposta di Seif, ritiene che il Cns meriti una rappresentanza più significativa, controllando almeno il 40% di qualsiasi organismo decisionale formato”.

A quanto pare, abbandonare la poltrona del comando è dura. Ma un fatto è certo. Alla fine dei lavori, che si chiuderanno giovedì, senza un accordo sulla leadership dell’Opposizione, saremo al punto di partenza. Anzi un passo indietro visto il precedente fallimento della riunione di luglio, al Cairo, in cui non è stato raggiunto un accordo per formare un fronte di opposizione coeso. E al prossimo Meeting degli Amici della Siria, in Marocco, la Comunità Internazionale si troverebbe di nuovo senza una rappresentanza unita e significativa dei siriani. Rendendo il meeting inutile.

Intanto in Siria si continua a combattere. Lunedì, un attentatore suicida si è fatto esplodere nei pressi di un check-point dell’Esercito nella provincia di Hama causando una cinquantina di vittime. Mentre il 3 novembre, tre carri armati siriani sono entrati nel villaggio di Beer Ajam, nel Golan e si sono verificati scontri fra curdi e forze ribelli. Il rischio di una balcanizzazione della zona, così come di un allargamento del conflitto nei Paesi confinanti (soprattutto il Libano e l’Iraq) sono pericoli reali che rischiano di accendere altri fuochi.

di Antonella Appiano, in esclusiva per L’Indro Siria: opposizione unita cercasi, riproducibile citando la fonte.

 

 

Il Fronte instabile dei Paesi delle Rivoluzioni

Intervista al Professor Massimo Campanini
Il fronte instabile dei Paesi delle Rivoluzioni
Perché hanno vinto i partiti islamici, il ruolo delle Petromonarchie del Golfo. La presenza di gruppi terroristici nei Paesi in via di trasformazione.
“Iniziare una rivoluzione è difficile, ancora più difficile è continuarla, e difficilissimo è vincerla. Ma sarà solo dopo, quando avremo vinto, che inizieranno le vere difficoltà. Sono le parole che – nel film, ’La battaglia di Algeri’ di Gillo Pontecorvo 

La guerra del petrolio

Geopolitica e indipendenza energetica

La guerra del petrolio

Gas e oro nero rimangono al centro degli interessi Occidentali (e non solo) in Medio Oriente.

Mitt Romney ha dichiarato che se diventerà presidente degli Stati Uniti, il Paese, importerà petrolio solo dal Canada e dal Messico. Secondo il candidato repubblicano infatti , importare petrolio da paesi instabili come quelli medio- orientali rende gli States “energicamente dipendenti”. Anche secondo il Presidente in carica, Barack Obama, l’indipendenza energetica è necessaria perché il petrolio può essere usato come “arma per destabilizzare i governi democratici da parte di governi non democratici”. Certo il Canada non è un paese instabile in grado di procurare problemi. E le dichiarazioni odorano di retorica.

Primavere arabe:il punto della situazione

Preoccupa anche la Giordania

’Primavere arabe’: il punto della situazione

L’escalation siriana rischia di creare seri pericoli nei Paesi vicini e nell’intera regione. In Libia, a meno di un mese dalle prime elezioni libere, cade il governo del premier Mustafa Abushagur.

Mitt Romney spara a zero sulla politica estera di Obama in Medio Oriente dichiarando, davanti ai cadetti della Virginia Military Institute, che “il Presidente ha fallito nel trattare la questione siriana”. E non lo risparmia neppure riguardo la Libia, l’Iran e l’Iraq. Bellicoso e sicuro di sé, il candidato repubblicano ha affermato che il fallimento di Washington è totale in Siria, dove più di 30.000 tra uomini, donne e bambini sono stati massacrati dal regime di Assad negli ultimi 20 mesi. La Turchia, nostro alleato, è stata aggredita e il conflitto minaccia la stabilità nella regione”. Affermazioni pesanti, quelle di Romney, che afferma: L’assalto al consolato americano di Bengasi è stato compiuto dalle stesse forze che ci hanno attaccato l’11 settembre 2001. Per questo, il colpevole non può essere un riprovevole video contro l’Islam, nonostante il tentativo dell’amministrazione Obama di farlo”. Ancora critiche. L’Iran non è mai stato così vicino alla realizzazione di armi nucleari e in Iraq ha portato a un aumento delle violenze, al ritorno di al Qaeda, all’indebolimento della democrazia”. Promette di fare di meglio, Romney, e si appella alla necessità “dell’America come guida”.