Incontro degli Amici della Siria a Roma fra accuse e minacce di boicottaggio ritirate. Il banco di prova per l’agenda mediorientale del nuovo Segretario di Stato americano John Kerry in una regione a rischio di “alta destabiizzazione”
Secondo lo scrittore libanese, Amin Maalouf, in Francia dal 1976, e in uscita con il romanzo “I disorientati”, nel mondo arabo potrebbe scoppiare ”una seconda rivoluzione che chieda una vera modernizzazione sociale. Un processo molto lungo e, in alcuni paesi molto violento. Come in Siria, dove – se la situazione continua a peggiorare – ci saranno ricadute pesanti sul Libano”. Gli effetti della destabilizzazione regionale veramente sono già visibili in Libano e potrebbero estendersi anche ad altri stati confinanti, la Giordania, l’Iraq, la Turchia. Caso sempre più scottante quello della Siria. Mentre il Paese è in preda alla guerra civile e devastato da attentati a catena,l’opposizione, con a capo Moaz al Khatib, aveva dichiarato di voler boicottare la riunione degli “Amici della Siria”, in programma a Roma giovedì 28, incolpando l’Occidente e gli Usa di non fare nulla di concreto per far cadere il regime di Bashar al- Assad. Ma L’Opposizione ha cambiato idea dopo le richieste del nuovo Segretario di Stato americano John Kerry.
Un’opposizione che non sembra avere il controllo sul terreno, dove le operazioni militare sono sostenute soprattutto dai gruppi jihadisti e radicali. Il Fronte al- Nusra dei combattenti islamici ha già rivendicato una cinquantina, dei sessanta attacchi suicidi con le autobombe, compiuti in Siria nell’ultimo anno. Il gruppo terroristico presenta modalità e caratteristiche ideologiche simili a quelle di al Qaida in Iraq. Ed è la fazione più addestrata, più abile e meglio armata fra i combattenti sul terreno. Lo stesso Presidente americano Barack Obama aveva frenato più volte il predecessore di Kerry, l’allora sottosegretario Hillary Clinton, favorevole a rifornire di armi i ribelli.Accuse. Contro-accuse. Il New York Times, che cita fonti ufficiali americane ed europee, scrive che l’Arabia Saudita, da dicembre scorso, sta consegnando armi ai ribelli, attraverso la Giordania. Armi comprate in Croazia e destinate ai gruppi “laici” per cercare di tenere sotto controllo i movimenti jihadisti. Sempre secondo il New York Times, non è chiaro il ruolo svolto dagli Stati uniti in questa operazione. Ma una cosa è certa: com’è possibile controllare la destinazione finale delle armi in un Paese nel caos come la Siria?
Siria: un nodo irrisolto e complesso che ha già causato 70mila morti dall’inizio delle rivolte a fine marzo del 2011. Un rebus che sembra complicarsi ogni giorno che passa e che divide non solo gli Stati uniti ma anche la Comunità internazionale. L’Occidente e gli States che si sono schierati a favore delle rivolte in Tunisia e in Egitto e hanno appoggiato i Fratelli Musulmani contro gli autocrati -prima alleati degli Stati Uniti- dovrebbero comportarsi nello stesso modo in Siria. Ma “sul piatto” esiste la reale possibilità di una prevalenza dei gruppi più radicali e quindi, di conseguenza, la necessità di difendere Israele. Gli Stati Uniti cominciano a temere forse che i cambiamenti nei paesi delle Primavere arabe, avranno effetti non controllabili?
Intanto il ministro degli Esteri siriano,Walid al-Muallem, durante l’incontro in Russia con il ministro russo Sergei Lavrov, ha dichiarato di voler “aprire il dialogo per porre fine al conflitto con tutte le forze di opposizione al regime di Bashar al-Assad, compresi i gruppi armati“. Ma è un negoziato fra le parti è un’opzione ancora credibile?
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L’Egitto e la Tunisia dopo la fine delle autocrazie ’laiche’
Le vittorie dei Fratelli Musulmani e di En-Nahda sono un insuccesso? E intanto in Siria continua la battaglia mediatica.
Proteste e scontri in Egitto e in Tunisia. Scelte sbagliate del presidente Morsi che dopo essere stato ’acclamato’ per la mediazione – conclusa con successo – nelle trattative della tregua tra Israele e Hamas, è contestato dalla Piazza. Certo, una mossa poco saggia quella di reclamare i pieni poteri. E di imporre una nuova costituzione che riprende pesantemente la Shari’a. Gli egiziani hanno già dimostrato di non essere più disposti ad accettare dittature e il Paese sta vivendo una grave crisi economica e sociale. Ma il percorso da una autocrazia a un governo che garantisca ’democrazia’, sia pure declinata secondo l’Islam politico richiede tempo. Passaggi obbligati. Forse è presto per dire che la partita è persa. Anche in Tunisia dove, ricordiamo, dopo la cacciata di Ben Ali, ha vinto un governo di coalizione con a capo il partito religioso En-Nahda (Rinascita), sono ripresi scontri e proteste. Però En-Nahda deve mediare con il gruppo più radicale che fa parte della coalizione. E i compromessi storici, si sa, non sempre hanno successo. Certo il momento è importante: se fallisce anche l’Islam politico che cosa succederà in questi Paesi così vicini all’Italia e all’Europa? L’instabilità è un lusso che non possiamo permetterci.
Intanto non si profila nessuna soluzione per la Siria. Il generale prussiano Otto von Bismark diceva: “Non si mente mai come per una battuta di caccia, una donna o una guerra”. Siria e armi chimiche. Quale verità? In questi giorni le dichiarazioni e le smentite riguardo all’arsenale chimico in possesso dalla Siria – e che potrebbero essere usato contro i civili – si rincorrono. La ‘BBC’ (attingendo a fonti del Foreign Office) riporta che la leadership di Damasco è pronta farne uso. Il regime dichiara invece di essere contrario all’uso di armi a base di gas contro la popolazione. Anzi, accusa il gruppo jihadista Fronte al-Nusra di controllare una fabbrica di cloro.
Sul terreno appare ormai chiara l’avanzata degli oppositori armati. Non solo al confine con la Turchia, ma anche intorno a Damasco. Gli Stati Uniti continuano ad esprimere la preoccupazione che le armi finiscano in mani estremiste. Ma questo, in parte, è già avvenuto. In uno scenario post-Assad quindi le incognite sono tante. I vari gruppi – o parte dei gruppi che compongono la resistenza armata – potrebbero continuare a combattere. La nuova coalizione eletta a Doha, è davvero in grado di controllare il territorio? Di far deporre le armi? E si dibatte sul ruolo della Russia. Sta allontanandosi dal regime? Mentre nel nord del Libano, a Tripoli, si acutizzano gli scontri fra fazioni pro e contro Bashar Al-Assad. Fonti libanesi parlano di una quindicina di morti nell’ultima settimana.
Dal web continuano ad arrivare tweet e video di cui è impossibile accertare la fonte. Anche i bambini non sfuggono alla strumentalizzazione. Bambini avvolti da bandiere del regime o dell’esercito siriano libero che guardano in telecamere, recitando slogan. E’ davvero l’immagine più triste.
La trama è diversa da quella del capolavoro di Boorman ’Senza un attimo di tregua’, ma altrettanto complessa e intricata. Se fosse il celebre film, la guerra civile siriana avrebbe lo stesso montaggio dal ritmo serrato, non lineare, in un alternarsi di violenza, alta tensione e brevi pause di speranza. L’ultima: la speranza di una tregua di quattro giorni per la Festa del Sacrificio, chiesta dall’inviato speciale dell’ Onu e della Lega Araba, Lakhdar Brahimi. E accettata, giovedì scorso, da entrambi gli schieramenti. Ma l’impegno non è stato rispettato, anche se non è chiaro chi abbia rotto la tregua per primo. Inutile aggiungere che le parti in causa si sono scambiate accuse reciproche.
La Siria si scusa e annuncia l’apertura di un’inchiesta
La tensione si allenta fra Damasco e Ankara
Difficile ipotizzare una soluzione diplomatica. Il premier turco Erdogan vuole il supporto della Nato
Cosa succederà ora tra Turchia e la Siria? Damasco ha chiesto scusa ad Ankara e annunciato “l’apertura di una inchiesta”. Da due settimane al confine turco siriano sono in corso combattimenti fra l’esercito regolare e gli oppositori. Non è quindi chiaro chi abbia sparato il tiro di mortaio che ha colpito, l’altro ieri, il villaggio di Akcakale, causando vittime civili. La Turchia ha risposto bombardando la provincia settentrionale di Idlib ma nel pomeriggio ha smesso di attaccare con l’artiglieria le postazioni dell’esercito siriano. E anche se il Parlamento turco ha approvato la richiesta di Erdogan “di condurre operazioni militari fuori dal confine nazionale”, Ankara rassicura la comunità internazionale che non intende agire da sola contro la Siria. E su questo punto il Premier turco è sincero. Vuole il supporto della Nato. Per la seconda volta (la prima nel giugno scorso quando un caccia era stato abbattuto sul Mediterraneo dalla contraerea siriana) ha cercato il ’casus belli’ per un intervento Nato appellandosi all’articolo quattro del trattato, secondo il quale, un attacco contro uno Stato membro è considerato un attacco a tutti i partecipanti dell’Alleanza. Ma né l’Europa né gli Stati Uniti vogliono essere trascinati direttamente nel conflitto. La Cina e la Russia continuano a porre il veto al Consiglio di Sicurezza. E senza dubbio il fermo ’no’ di Mosca gioca un ruolo fondamentale. Come la situazione in Libia che sta degenerando in una spirale di violenza senza controllo. E la presenza in Siria e nell’area regionale, di gruppi jihadisti. I Paesi occidentali sono infatti sempre più preoccupati del peso che i combattenti stranieri hanno conquistato nella rivolta contro gli Assad. Se il fine ultimo è lo stesso, abbattere il regime, gli altri obiettivi, certo non sono in comune.
L’Iran conferma l’appoggio a Bashar. Nella capitale del Nord si attende la battaglia decisiva.
Damasco. Arrivare a Damasco, questa volta è facile. Pochi controlli e superficiali. L’iter burocratico alla frontiera con il Libano è veloce. Certo c’è poca gente che entra nel Paese ora, e siamo in pieno Ramadan. Ma dopo la fuga di ieri (6 agosto) del Primo Ministro siriano Riyad Hijab, la ’battaglia’ per la conquista di Aleppo, l’attentato contro la sede della televisione di Stato sempre di ieri, è comunque sorprendente.
Grave escalation di violenza ad Aleppo, e si affaccia il problema dei “regolamenti di conti e delle vendette”.
“La violenza brutalizza non solo le sue vittime ma anche chi le compie” scrisse TizianoTerzani in ‘Lettere contro la guerra’. Oggi Susan Ghosheh (missione Nazioni Unite in Siria) ha denunciato alla BBC una grave escalation della violenza ad Aleppo nelle ultime 72 ore. “Le forze di opposizione ora sono in possesso di armi pesanti e di carri armati catturati all’esercito mentre le truppe regolari hanno usato aerei da guerra per colpire i ribelli in città”. E ha “esortato alla moderazione ambo le parti”. Ma la guerra civile, come ogni guerra, non conosce questa parola. In Siria la lotta è sempre più spietata.
La battaglia di Damasco ha segnato una svolta. L’attentato al Palazzo della Sicurezza Nazionale in cui sono rimasti uccisi importanti esponenti dell’esercito e dell’intelligence − tra cui il Ministro siriano della Difesa Dawoud Rajiha, il viceministro della Difesa ed ex capo dei servizi di sicurezza militari, Assef Shawkat (marito della sorella del Presidente, Bushra) e Hasan Turkmani, a capo della cellula anti crisi − rappresenta senza dubbio un attacco al simbolo del Potere. Ma del potere ‘formale’ (quello diciamo di facciata composto dal Parlamento, dal Governo, dalla Corte di Giustizia), non decisionale.
In Siria infatti è il poter ‘informale’ (composto dai Servizi di sicurezza e dai Corpi speciali dell’esercito) a prendere le decisioni, oltre naturalmente al Presidente.
Non sappiamo in questo momento se Bashar al Assad abbia lasciato o meno Damasco. Fonti dell’Opposizione affermano che si sia “rifugiato a Lattakia”, ma con certezza, sappiamo solo che il Rais non era nella sede dell’Ufficio della Sicurezza Nazionale al momento dell’attentato. Il Palazzo si trova in un quartiere al nord della città, Abu Roumaneh, accanto a piazza al Malki (dove ci sono molte ambasciate, anche quella italiana) e molto vicino alla Residenza presidenziale, un’area super controllata. E questo pone interrogativi sulla dinamica dell’esplosione. Auto kamizake, una bomba lasciata all’interno del Palazzo o un kamikaze, un uomo insospettabile, che indossava una cintura esplosiva?
I combattimenti fra gli oppositori dell’Esercito siriano libero e l’esercito regolare, per la prima volta si sono spostati dalla periferia della capitale al centro. E proseguono da cinque giorni.
A Midan, quartiere sunnita conservatore a sud della Città vecchia, a Kafar Suse, già teatro di manifestazioni nei mesi scorsi. Questi scontri cono attestati anche da testimonianze, attraverso alcune telefonate via skype con cui sono riuscita a raggiungere Damasco. “Si spara, ci sono elicotteri e blindati a Midan”, dice un medico residente nel quartiere. Fonti non confermate, riferiscono che si combatte anche a Sharia Baghad e nel quartiere di Muhajirin vicino a una caserma della Quarta Divisione comandata dal fratello del Presidente, Maher.
L’esito degli scontri, però non è ancora certo. Molti gli interrogativi. Non solo sulla sorte del Presidente, sulla dinamica dell’attentato o sull’accresciuta capacità dei ribelli che appare rinforzata da aiuti esterni.
Ultimo ma certo non meno importante interrogativo: che cosa faranno gli alawuiti (la setta minoritaria sciita, cui appartengono gli Assad) al potere (sia pur con elementi cooptati dalla comunità sunnita e cristiana) che hanno continuato a sostenere la leadership di Damasco? Continueranno a combattere? Si ritireranno nella regione di provenienza (le montagne fra il Mediterraneo e la piana dell’Oronte)? La caduta del Presidente provocherebbe una vera e propria crisi del sistema, travolgendo come un’onda tutta la società.
Una cosa però è certa. La guerra civile non resterà confinata nel Paese. Ci saranno ripercussioni sulla regione. La Siria confina con Paesi caldi come Libano, Iraq, Israele. Gli interessi in gioco sono tanti. Per esempio quello dell’Occidente e dei Paesi del Golfo che hanno sostenuto l’opposizione armata nel sostituire il regime con una leadership sunnita per isolare gli Hezbollah libanesi e l’Iran sciita, troppo forte per essere attaccato. Un Iran che dà fastidio agli Stati Uniti per il nucleare e per il dominio nel Golfo del petrolio. Nata come rivolta socio-economica, la crisi siriana rischia di trasformare il Paese in un nuovo Libano o comunque di essere strumentalizzata da potenze esterne, arabe, occidentali, turche. Siria. Una guerra per procura?
Damasco – Una casa, nel quartiere di Salihiyya, sotto il Jebel Qassiuon, la montagna rocciosa che si erge a nord ovest di Damasco.
“Tutto sembra tranquillo vero?” dice Amal. La sera, il Jebel è illuminato. Le automobili, le luci, la gente. Nei sobborghi però gli scontri proseguono. Ieri, a Qadam. “Io ho paura. Non riesco più a dormire da quando, settimana scorsa, i terroristi sono arrivati alle porte di Damasco. Gli spari, i colpi di cannone. Che vita è questa?”.
La sorella, Busrha, la interrompe spazientita. “Non sono terroristi, Amal, sono ribelli. Questa è una rivoluzione”. Succede in molte famiglie della capitale ora, non solo fra amici, di discutere e schierarsi a favore o contro la leadership al potere. Si sono addirittura rotti fidanzamenti.
Si parla, a Damasco. Dell’esercito siriano libero, di Kofi Annan, del conflitto che ha superato le frontiere, della gente che è scappata da Homs e da Duma e che occupa gli hotel al posto dei turisti. O affitta case. Ieri le voci degli scontri nel distretto di Qadam, a circa tre chilometri, sono circolate subito. Impossibile, però, verificare. Anche Qudsaya non è più raggiungibile. Intorno alla capitale sono aumentati i posti di blocco. Come sono cresciuti, rispetto a un mese fa, quelli lungo il tragitto che dalla frontiera libanese porta in Siria.
Beirut est e Beirut ovest? In effetti si prova una specie di spaesamento in questi giorni. Anche quando non è dichiarata, si percepisce fra la gente una divisione. Uno schieramento fra chi è ‘pro’ e chi e ‘contro’. La città vecchia sotto il sole rovente è vivace. Il souk pieno di merce. Nei caffè le ragazze fumano narghilè, annoiate. George, il proprietario di un ristorante racconta che “certo l’embargo ha creato problemi al Paese. Il gas è più caro, per esempio. Il 50% della produzione siriana di gas era destinata a uso interno e il 50% all’estero. Ora che l’Europa non importa più dalla Siria, il gas lo vendiamo in Russia, in Iran, Algeria. L’economia terrà”.
George non ha dubbi. È con il Presidente Bashar al Assad, così come Samar, un’insegnante di sport, originaria di Sweeda, che vuole addirittura farsi fotografare.
Si respira altro nell’aria di Damasco, in questi giorni: la stanchezza, l’incertezza, l’indecisione. Perché se è vero che per la prima volta la capitale è divisa, la divisione spesso si limita alle parole. E ancora si respira, come mi dice Jamal, “la sensazione di essere pedine” su “un grande tavolo da gioco manovrato da altri”. Jamal, è un artista. “Detesto la violenza. Vorrei che la situazione venisse risolta politicamente. Basta armi. Ci sono stati troppi morti da tutte e due le parti. Troppe famiglie hanno qualcuno da piangere. La rivolta pacifica si è trasformata in una guerra vera. Non è più solo un problema siriano. Troppi interessi in gioco. Troppe le Potenze interessate”.
Intanto la Russia ha presentato ai membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite una bozza di risoluzione che prolunga di tre mesi la missione Onu in Siria. Gli osservatori internazionali non dovrebbero più limitarsi alla sorveglianza del cessate il fuoco ma impegnarsi in una soluzione politica del conflitto.
Il documento che sollecita una “urgente” e “immediata” attuazione del piano di Annan qui sembra qualcosa di molto lontano, di astratto.
Bushra apre la finestra. “Io non credo a uno scontro settario. Nessuno toccherà i cristiani o gli alawuiti (la minoranza sciita cui appartiene la famiglia del Presidente Bashar al Assad) se vince la rivoluzione”.
Amal non è d’accordo. “Chi ci garantisce che non ci saranno vendette? Quanta gente è rimasta schiacciata senza volerlo in questa guerra?” E rivolta a me: “Sai che la parte antica del quartiere è stata costruita da Nur al Din per gli arabi costretti a fuggire da Gerusalemme, a causa dai Crociati?”. Già. Era l’anno 1099. Le crociate: potere, territorio, dominio. Non certo religione.
Mohamad Shama era uno dei giornalisti siriani che, insieme a noi giornalisti stranieri, aspettava ogni mattina di partire seguendo i caschi Blu dell’Onu in missione. Nel maggio scorso, prima che il generale Mood dichiarasse che “per motivi di sicurezza” le missioni erano sospese, il gruppetto di operatori e giornalisti restava ore ad aspettare con pazienza, sotto il sole, il segnale. Era. Perché Mohamad Shama, che lavorava per la televisione siriana satellitareal-Ikhbariya Channel, è stato ucciso insieme ad altri tre colleghiieri (mercoledì 27 giugno ndr) durante l’assalto di un commando armato alla sede Tv, a Jan Shih, circa 25 chilometri dalla capitale. L’attacco è avvenuto poche ore dopo che il Presidente Bashar al-Assad aveva dichiarato che la Siria “è ormai in stato di guerra su tutti i fronti”.
L’escalation della violenza nel Paese sta seguendo un ritmo sempre più serrato e veloce. Due giorni fa sono scoppiati scontri tra le forze governative e i ribelli fino alle porte di Damasco, vicino alle postazioni della Guardia Repubblicana, mentre questa mattina una forte esplosione è avvenuta davanti al palazzo di Giustizia a Damasco. Sugli schermi della tv di Stato siriana sono apparse immagini di automobili in fiamme nel parcheggio dell’edificio. Nessuna vittima, sembra.
In sottofondo la situazione tesa con la Turchia. Venerdì scorso infatti la contraerea di Damasco, ha abbattuto un caccia turco sostenendo che aveva violato lo spazio aereo siriano. Tra accuse e contro accuse il Premier turco Recept Tayyp Erdogan ha richiesto una riunione degli ambasciatori Nato in base all’articolo 4 delPatto Atlantico (che prevede consultazioni quando la sicurezza di un Paese membro alleato può essere a rischi). Espressioni di solidarietà scontata per la Turchia, ma la Nato dice no a un’azione militare.
Il fatto impone comunque alcune riflessioni: la Turchia ha voluto cercare un casus belli? O è stato davvero un incidente? La versione di Ankara è, ovvio, completamente diversa da quella di Damasco: “un volo disarmato del Phantom F-4 per rilevare radar turchi”. La Russia, alleata della Siria, ha messo una pulce nell’orecchio dichiarando invece che il caccia “doveva testare i sistemi di difesa siriani e fare spionaggio per la Nato”. Il premier turco ha comunque annunciato nuove regole d’ingaggio per le forze militari turche lungo gli 822 km di confine fra i due Paesi. Da ora “dovranno rispondere con le armi a ogni violazione del confine”.
La Turchia non ha intenzione di attaccare la Siria, ha dichiarato Erdogan a ’Le Monde’, ma in queste condizioni, si sa, basta poco a provocare la scintilla. Anche perché lungo la frontiera porosa passano da mesi profughi, disertori, oppositori armati, mercenari, guerriglieri. Un traffico di uomini e di armi.
In questa situazione sempre pericolosa, l’inviato dell’Onu Kofi Annan sta provando a giocare ancora una carta per una soluzione politica e ha convocato per sabato 30 giugno, a Ginevra, una conferenza delle grandi Potenze e dei Paesi arabi. La proposta di Kofi Annan? L’istituzione nel Paese di un governo di transizione che includa sostenitori del presidente Bashar al-Assad e membri dell’opposizione. Le maggiori potenze Russia, Cina, Stati Uniti, Regno Unito e Francia sembrano sostenere l’idea. Non ci resta che aspettare. In quella che ormai sembra una spy story, ma che purtroppo è una tragica realtà, e al di fuori degli interessi internazionali, regionali, delle Cancellerie, dei giochi di potere, come sempre il popolo siriano rimane l’unica vittima. Su tutti i fronti.
Lo ha appena dichiarato il segretario della Nato Andres Fogh Rassmussen :”Non abbiamo alcuna intenzione di intervenire in Siria perché crediamo che il modo giusto di andare avanti sia perseguire una soluzione pacifica e politica”, e, quindi, che il piano di Kofi Annan, inviato speciale dell’Onu e della Lega Araba, venga rispettato. Il piano di Annan prevede, dopo il cessate-il-fuoco, l’apertura di corridoi umanitari, l’avvio di un dialogo politico inclusivo, la liberazione di tutti i prigionieri politici e di chi si trova attualmente in stato di detenzione arbitraria, la libertà di accesso ai giornalisti, la libertà di tenere manifestazioni pacifiche. La missione dell’Onu per ora può contare solo su una avanguardia di 16 osservatori. Il Consiglio di sicurezza ha però già autorizzato l’invio di 300 osservatori che saranno dislocati i tutti i punti caldi del fronte che contrappone forze governative e opposizione armata. Ma è appunto, il “cessate il fuoco” il punto cruciale. Per il successo dell’operazione è necessario che avvenga subito e sia bilaterale. Il conflitto deve essere smilitarizzato, non c’è dubbio. Tutti invocano la fine delle violenze: chi sono allora gli attori che sulla scena boicottano il piano di Kofi Annan?
Tanti. Due giorni fa (il 28/04/2012) , fonti della sicurezza libanese hanno riferito di aver intercettato tre container carichi di armi destinate all’opposizione siriana armata: mitragliatrici pesanti, mortai, lanciarazzi e munizioni da artiglieria. I container si trovavano su una nave salpata dalla Libia e diretta a Tripoli libanese, ma le autorità di Beirut che la seguivano da giorni l’hanno costretta ad approdare al porto di Selaata.
L’opposizione accusa il governo di non rispettare gli accordi, mentre la leadership di Damasco accusa i gruppi di opposizione di collusione con movimenti terroristici. Ed il gruppo islamista “’Fronte Al-Nusra” ha rivendicato la responsabilità dell’attentato suicida che venerdì 27 aprile ha ucciso a Damasco 11 persone.
Sulla delicata scena siriana, gli attori sembrano moltiplicarsi, rendendo il quadro confuso e pericoloso. E spesso rilasciano dichiarazioni contraddittorie. Perché Ghalioun, leader del Cns (una delle sigle dell’Opposizione che ha sede in Turchia) proprio all’inizio della tregua Onu, ha “auspicato l’invio di armi agli oppositori”? Perché, appena il piano era stato accettato, sempre Ghalioun aveva proposto di pagare i militari dell’Esercito Siriano Libero? Non sembra proprio un atteggiamento coerente ad un “cessate il fuoco”. E anche l’esercito siriano libero sembra “fuori controllo” , secondo fonti Reuters.
Non un esercito unito contro il governo di Bashar- al Assad, ma un insieme di gruppi che agiscono senza essere coordinati. In cui si mescolano oppositori, salafiti, mercenari libici, secondo testimoni che li hanno intervistati alla frontiera fra la Turchia e la Siria. “Anche delinquenti comuni che non esitano a rapinare e uccidere” , come mi ha scritto recentemente, Salem da Aleppo.
La verità, quando non si possono accertare di persona le fonti, è sempre difficile da scoprire. Ma un elemento è certo: la pace è fondamentale per l’unità politica e territoriale della Siria e per la stabilità nell’area medio-orientale.