Si legge poco in questa estate di Siria. Della Siria e della sua guerra, che è un po’ come ‘l’isola che non c’è’. Oscurata dallo scontro Israele-Hamas e ora dall’aggravarsi della crisi in Iraq, dove il Premier uscente al-Maliki rifiuta la nomina dell’esponente sciita al-Abadi, incaricato dal Presidente Fuad Masum di formare un nuovo Governo e dove avanza il Califfato Islamico che ha conquistato la città di Jalawla, a 130 chilometri a nord-est di Baghdad, minacciando i confini meridionali della Regione autonoma del Kurdistan. Si legge poco. O niente. E la Siria sembra ormai un Paese congelato in uno situazione senza tempo e senza via di uscita.
Nonostante i 170mila morti (in 3 anni e mezzo di violenze, il numero delle vittime siriane supera quello delle vittime della guerra civile libanese durata 15 anni, dal 1975 al 1990); più di 7 milioni di sfollati interni e circa 9,5 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria (dati OCHA), oltre 1 milione di feriti, di cui più di 650 mila mutilati (dati Syrian Network for Human Rights). I rifugiati registrati dall’UNHCR sono 3 milioni ma i dati si riferiscono appunto solo ai siriani registrati ufficialmente: si calcola, infatti, che almeno un terzo della popolazione sia fuggita dal Paese, avventurandosi anche in pericolosi viaggi per mare.
Qualche giorno di attenzione sui media a larga diffusione, la Siria l’aveva guadagnata, durante le elezioni presidenziali del 3 giugno scorso. Elezioni pluralistiche solo da un unto di vista tecnico e non rappresentative di tutto il Paese dato che si erano svolte solo nelle zone controllate da Regime. E non legittime perché avvenute dopo un cambiamento della legge elettorale che- di fatto – escludeva gli esponenti della coalizione degli oppositori all’estero e i dissidenti storici. Vinte come previsto da Bashar al -Asad.
Elezioni contestate, svolte in un Paese in guerra conclamata, minacciato dall’emergenza dei gruppi jihadisti legati o meno ad al Qaeda, dove l’allora gruppo estremista dell’ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e delle Siria) chiamato dai siriani Daesh (Dawla Islamiya fi Iraq wa Sham) ora Califfato (Stato Islamico, IS) dopo l’auto-proclamazione del suo leaderAbu- Bakhr al Baghdadi-aveva già preso possesso di larghe fette del territorio a nord est della Siria. E’ quindi pur vero che -esistono numerose testimonianze- molti siriani saranno andati a votare pensando: ‘alla fine, fra le milizie spietate di Daesh e il dottor Bashar, è Bashar il male minore’.
Ma è forse cambiato qualcosa? Bashar al- Asad è il signore della guerra di un territorio in larga parte distrutto. La leadership di Damasco controlla le zone occidentali del Paese, da Damasco a Latakia, passando per Homs. Mentre l’est è ‘governato’ in buona parte dallo Stato Islamico, ‘il Califfato’. L’Esercito Siriano Libero sta perdendo terreno. Gli altri gruppi ribelli si contendono, lottando fra di loro e contro l’Esercito regolare, il nord della Siria, tra cui Aleppo e le province di Idlib e Hama. Le forze sul terreno sono variegate e si scontrano appunto spesso fra loro. Il più forte rimane sempre il ‘Califfato’.
Secondo l’Institute for the Study of war, lo scorso luglio, lo Stato Islamico ha conquistato alcune città lungo il fiume Eufrate: come Deir Ezzor, sesta città siriana per numero di abitanti, e ora controlla circa l’80 per cento della provincia. Sembra che abbia recentemente preso possesso anche di una base militare a Raqqa e una seconda base nella provincia nord-orientale di Hasaka. Ancora secondo l’Institute for the Study of war, il Califfato ha raggiunto anche Aleppo (in parte ancora in mano all’Esercito siriano libero) e pesantemente bombardata dall’aviazione governativa.
Una situazione fluida, con alleanze che si fanno e si disfano nel giro di pochi giorni. I civili come sempre, tragicamente intrappolati fra i vari contendenti di una guerra che -pur interessando pochi- è invece sempre più sanguinosa. Gli ultimi due mesi (giugno e luglio) secondo il Centro di documentazione delle violazioni in Siria hanno registrato un altissimo numero di morti, più di 1300.
Il Califfato combatte anche i curdi siriani nel nord del Paese -che avevano già dichiarato la propria indipendenza dal Governo centrale nell’autunno del 2013- con esiti altalenanti. Il PYD (Democratic Union Party) e il suo braccio armato, si stanno contendendo da mesi la ragione siriana diHassakah che confina con il Kurdistan iracheno e il sud della Turchia (sempre a maggioranza curda).
E’ evidente, quindi che -a parte il dramma dei siriani e la crisi umanitaria – non possiamo disinteressarci della Siria. Le connessioni con i Paesi confinanti sono evidenti e pericolose. Si sta ridisegnando una nuova mappa della Regione. Il Califfato potrebbe arrivare a minacciare la stessa area controllata da Bashar al Asad. Questa abitudine molto italiana di considerare i problemi e le crisi di Paesi vicini a noi come la Sira, come problemi che non ci riguardano -se non per la paura egoistica di dover ospitare i rifugiati- è un’arma a doppio taglio. Siamo tutti coinvolti in questo cambiamento storico e, anche se è già tardi, sarebbe meglio capirlo.
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L’ansia dell’incertezza. L’impossibilità di programmare una giornata, una settimana; la nebbia che copre il futuro. La sensazione che il futuro non esista: questo ha spinto la mia famiglia a lasciare la Siria. Più delle difficoltà economiche, più della paura. Non avevamo più speranze”. Mahmoud ora vive a Roma con la famiglia. Si è salvato e riesce ancora a sorridere chiedendomi “Ti ricordi la gita a Maloula, nel 2008?”. Può rifarsi una vita. Non come T. di Yabrud, uno degli oppositori pacifici della prima ora. Uno degli organizzatori delle manifestazioni. Una notte è stato portato via dai servizi segreti. E solo pochi giorni fa, dopo tre anni di ricerche, ho avuto la conferma che è stato ucciso. Perché lo sappiamo tutti, lo so -ero in Siria in quel periodo- che durante i primi mesi del 2011, la rivolta non era armata. E che erano i siriani a scendere in piazza a chiedere riforme e libertà. Siriani come T. che non aveva idee molto chiare su chi avrebbe voluto al potere, che era forse un poco ingenuo e alle mie domande rispondeva solo “inshallah”, offrendomi mishmishancora acerbe. Ma era siriano. Siriano e non straniero, non jihadista o radicale. Una fase che oggi si tende a dimenticare. Perché poi sono arrivate le armi, si è formato l’Esercito Siriano Libero, sono intervenute le potenze Regionali e le super potenze. E dal 2012, i combattenti stranieri legati al jihad.
Si legge poco in questa estate di Siria. Della Siria e della sua guerra, che è un po’ come ‘l’isola che non c’è’. Oscurata dallo scontroIsraele-Hamas e ora dall’aggravarsi della crisi in Iraq, dove il Premier uscente al-Maliki rifiuta la nomina dell’esponente sciita al-Abadi, incaricato dal Presidente Fuad Masum di formare un nuovo Governo e dove avanza il Califfato Islamicoche ha conquistato la città di Jalawla, a 130 chilometri a nord-est di Baghdad, minacciando i confini meridionali della Regione autonoma del Kurdistan. Si legge poco. O niente. E la Siria sembra ormai un Paese congelato in uno situazione senza tempo e senza via di uscita.
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Basirma – Shaqlawa (Kurdistan iracheno) – Il Campo di Basirma è a circa 80 chilometri a nord- est di Erbil, nel distretto di Shaqlawa. Appare all’improvviso, dietro una curva, come un miraggio bianco disteso nella pianura secca e giallastra in mezzo alle colline. Il campo, è nato nell’agosto 2013, grazie all’intervento della Regione autonoma del Kurdistan e di Organizzazioni Internazionali, ed è ben strutturato, tranquillo. Lungo
Kirkuk (Kurdistan) Iraq – Per arrivare a Kirkuk, circa 80 chilometri a sud di Erbil, lungo la Baghdad road, i check point dell’Esercito curdo, formato dai peshmerga, sono cinque. Ogni volta i documenti vengono controllati con attenzione, così come il bagagliaio dell’automobile.
Dopo l’attacco dei miliziani di Abu Bakr al- Baghdadi, respinti dai peshmerga,
Erbil (Kurdistan) Iraq – E’ tempo di Ramadan e Mohammad Nuri -imprenditore e commerciante di Erbil- ha fissato il nostro appuntamento dopo il tramonto quando il muezzin annuncia la rottura del digiuno, al Café Azado, nel Family Mall.
Ordinando un tè, cita il leader politico curdo, Abdul Rahman Ghassemlou: “non si parla molto dei curdi perché noi non abbiamo mai preso un ostaggio, mai dirottato un aereo e ne sono fiero”.
Le sigle rischiano di confondere il lettore che legge ISIS (Stato islamico dell’Iraq e della Siria) o ISIL (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) senza poter dare agli acronimi lo spessore storico.
‘Siria’ e ‘Levante’ sono termini ingannevoli. In realtà, gli arabi usano invece la parola ‘Sham’ o ‘As-Sham’ che significa ‘la Grande Siria’. Non la Sira di oggi, dunque, (almeno prima delle rivolte e della guerra) che confina con la Turchia a nord, la Giordania e Israele a sud, l’Iraq ad est, e il Libano a ovest. Perché ‘la Grande Siria’, invece, comprendeva -prima della divisione dell’Impero Ottomano con l’Accordo Sykes-Picot (il trattato segreto stilato da due diplomatici britannici e francesi, Mark Sykes e Francois George-Picot , alla fine della Prima Guerra Mondiale per dividere le terre dell’Impero Ottomano tra Gran Bretagna e Francia)- la Siria di oggi più parte dei territori di questi Stati.
Per questo gli arabi non usano le sigle occidentali, ma identificano il gruppo estremista sunnita islamico con il nome di Dawla Islamiya fi Iraq wa Sham chiamato familiarmente Daesh dai siriani.
Il trattato di Sykes-Picot, fu un raggiro a danno della Grande Siria e molti arabi non dimenticano ancora ‘la grande offesa’. Per questo, ancora oggi, molti mediorientali, rifiutano di accettare questa divisione e pensano alla Siria come ‘la Grande Siria’.
E se agli occidentali, il termine ‘Califfato’ può far sorridere e sembrare fuori dal tempo, è bene ricordare che proprio della terra di ‘Sham’ (Bilad al-Sham) questo vasta regione di cui facevano parte anche aree dei Paesi sopra citati, nacque il primo Califfato Islamico, quello degli Omayyadi, dal 661 al 750 d.c., con Damasco capitale.
Chiarito questo primo punto storico, passiamo alla Siria, dove il gruppo estremista di matrice qaidista, è comparso sul terreno più di un anno fa, nel febbraio 2013, sventolando le ormai celebri bandiere nere. Combattendo contro il regime, ma con finalità diverse dall’Esercito Siriano Libero (ESL), quelle, appunto, della creazione di un Califfato islamico. E, in secondo tempo, scontrandosi addirittura con alcune brigate dello stesso ESL e agendo quind, di fatto, come ‘forza controrivoluzionaria’ -e cioè indebolendo i ribelli siriani più che la leadership degli Assad. E’ in Siria che l’ISIS si è rafforzato e ha cominciato la sua espansione verso est, impossessandosi di Mosul, la seconda città irachena e arrivando a pochi chilometri dalla capitale, Baghdad.
Molto importante, però, al fine della comprensione dei fatti, è ricordare l’’intrecciarsi‘ continuo e il collegamento delle azioni del gruppo, in Siria e in Iraq dal 2013. Infatti, subito dopo la comparsa in Siria, a Daraya e Aleppo (a febbraio), già nel luglio 2013, il gruppo estremista sunnita, compie una serie di attentati suicidi in Iraq, a Nassiriyya, Mosul, Kirkuk, Bassora. Mentre, nell’agosto 2013, riesce a conquistare la città di Raqqa, sconfiggendo i ribelli dell’Esercito siriano libero (Esl) alleato con igruppi salafiti di Jabhat al Nusra e Ahrar ash Sham, che avevano strappato la città al regime, nel 6 marzo 2013. Dalla conquista di Raqqa, il gruppo comincia a vessare i civili (anche i musulmani non solo i cristiani) e balzare sulle pagine della cronaca per le azioni crudeli. Afferma di applicare la Sharia (la legge coranica) ma è una interpretazione radicale, secondo molti analisti, distorta. ‘Lo Stato Islamico’ esegue fustigazioni e taglio delle mani ai ladri, espone pubblicamente chi uccide perché accusato di omicidio o di combattere per il regime. Spesso impone l’abolizione del fumo, della musica e velo integrale alle donne.
Proprio perché ormai ‘Lo Stato Islamico‘ rappresenta un pericolo per le vere forze rivoluzionarie, in Siria, i ribelli che combattono controBashar al- Assad, si riuniscono sotto ilFronte islamicoe cercano (dal dicembre 2013) di cacciarlo dal Paese. In un susseguirsi di vittorie e di sconfitte, alla fine i ribelli siriani perdono. Il risultato finale? A irrobustirsi e a consolidare posizioni o ad addirittura ad avanzar sono l’Isis e il regime. Inoltre, anche i gruppi di jihadisti stranieri combattono da tempo sui due fronti: Siria e Iraq. Un’azione congiunta comprensibile se si pensa che il fine ultimo è cancellare la frontiera fra i due Paesi per la creazione del Califfato.
Due osservazioni ancora. Se in un primo tempo, abbiamo definito l’Isis (o Isil o Dawla Islamiya fi Iraq wa Islam), insomma lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, un gruppo di stampo qaidista perché nato con l’approvazione del leader di al Qaida, Ayman al Zawahiri, e da un primo nucleo operante in Iraq (ISI) in un secondo tempo, all’inizio del 2013, il leader dell’Isi, Abu Baqr al Baghdadi, comincia prendere decisioni ‘unilaterali’. Proclama la sua fusione con il gruppo del Fronte al -Nursa (che invece rivendica la sua autonomia) fino ad essere richiamato dallo stesso Zawahiri in Iraq, e invitato a abbandonare la questione siriana. Ma Abu Baqr al Baghdadi rifiuta di obbedire, rivendica la propria autonomia e si definisce Califfo dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante.
La seconda. Perché Lo stato Islamico dell’Iraq e del Levante sta collezionando tante vittorie? Superiorità militare sul terreno senza dubbio, però esiste ancora un fattore: la sua organizzazione. Per la prima volta ci troviamo davanti a un gruppo jihadista, estremista che non è nato solo per combattere. Ma per vincere e restare in maniera strutturata. Un gruppo di tipo ‘parastatale’ anche se, il modello che propone è quello di uno Califfato, uno Stato basato, come abbiamo detto, sulla sharia -anzi su una interpretazione oscurantista, deviata della sharia- ma che è in grado, quando s’impossessa di un territorio di rendere operativi scuole, uffici, strutture poliziesche.
Sui media occidentali, il fenomeno Isis vien visto soprattutto come scontro confessionale fra sunniti e sciiti. Ed anche il Presidente iracheno Nuri al Maliki spinge in questa direzione. Ma è riduttivo definire l’Isis solo come ‘gruppocombattente religioso‘. E necessario conoscere la storia. E’ necessario ricordare il potere, la politica, la rivincita.
Si sa, infatti, che in Iraq, la politica di Al Maliki e dei governi a maggioranza sciita al potere dopo la caduta di Saddam Hussein, sono stati penalizzanti nei confronti dei sunniti (il 40% della popolazione se consideriamo anche curdi e turcomanni ). Quindi il successo dello ‘Stato islamico‘ può anche essere visto dai sunniti come rivincita sul potere sciita. Non solo in Iraq ma anche in Siria, dove la dittatura al potere degli Assad, appartiene al ramo sciita degli alawiti (nel Paese la percentuale sunnita è del 74%).
E ancora, il richiamo al Califfato, non riguarda solo l’Islam degli albori, delle prime conquiste, ma ricorda lo scontro per ilpotere secolare, tra le due confessioni del mondo musulmano: sciiti e sunniti.
Proviamo a pensare alle guerre di religione in Europa. Cattolici e protestanti combatterono per la religione in senso stretto o per il potere secolare? Vittoria dopo vittoria (ma in Iraq alla presa di Mosul, hanno contribuito gli ex ufficiali di Saddam e i gruppi tribali della provincia), gli Stati Uniti rilasciano dichiarazioni contrastanti di intervento sì e intervento no sul territorio o tramite droni o di una alleanza con l’Iran. I Paesi dell’Unione Europea, l’Italia soprattutto, non contano nulla, né sul piano diplomatico nè operativo, mentre la proclamazione di un califfato sunnita, a ridosso del confine tra Iraq e Siria, sta diventando concreta. Per ora solo i guerrieri curdi (ipeshmerga) della regione autonoma del Kurdistan iracheno con capoluogo a Erbil, si sono dimostrati in grado di contrastarli. Dal 12 giugno, dopo che Kirkuk era caduta in mano dell’Isis, è sotto controllo appunto deipeshmerga.
Certo l’attacco dell’Isis al Governo irecheno rappresenta una buona occasione per i curdi iracheni che mirano alla costituzione di uno Stato vero e proprio e in passato si sono scontrati con il Governo di Baghdad per dispute territoriali sul Governatorato di Kirkuk e di Salaheddine. Ora, di fronte alla totale impreparazione dell’Esercito iracheno, la leadership di Baghdad ha chiesto ufficialmente al Governatorato del Kurdistan di impiegare i peshmerga contro Isis.
In Siria si continua a combattere anche dopo le ‘elezioni presidenziali‘ e le opzioni sono ancora tutte aperte. Un fatto appare, pero, altamente provabile: accordo Sykes-Picot, addio. L’avanzata dell’Isis ha il reale potere di cambiare gli assetti regionali del Medio Oriente e i confini tracciati dall’Occidente dopo la prima guerra mondiale per la spartizione dell’area.
Gli obiettivi di formazioni jihadiste come Jabhat al Nusra (il Fronte della Vittoria) e Dawla Islamiya fi Iraq wa Sham, (lo Stato Islamico nell’Iraq e nel Levante), si differenziano da quelli di altri gruppi di ribelli perché combattono il regime di Bashar al-Assad al fine di creare un Califfato islamico, basato sulla sharia (la legge islamica). Una visione che a noi può apparire fuori tempo e utopistica ma che invece rappresenta il nutrimento ideologico che alimento il jihad in Siria. Conosciuta storicamente come Bilad al-Sham, il territorio che un tempo comprendeva – oltre la Siria – anche il Libano, i territori palestinesi e parte della Giordania. E in questo obiettivo c’è un valore storico e simbolico. Proprio in questa zona nacque infatti il primo Califfato Islamico, quello degli Omayyadi , dal 661 al 750 d.c., con Damasco capitale.
Queste fazioni sono le più preparate dal punto di vista militare e le più attive, a loro si devono la maggior parte degli attacchi vincenti contro le forze del regime. E gli attentati di tipo iracheno in varie città siriane (la prima rivendicazione del gruppo Jabhat al Nusra è del 6 gennaio 2012, circa 10 mesi dopo le prime manifestazioni contro gli Assad). L’alleanza con fazioni dell’Esercito siriano Libero costituisce solo un tappa del percorso di Jahhat al Nusra. E qui sta il pericolo. Infatti se i ribelli riuscissero a rovesciare il regime e organizzare un nuovo potere, il gruppo jihadista continuerebbe a combattere contro gli ex alleati. La lotta contro un nemico comune, il regime di Assad, sta funzionando da collante ideologico, ma una volta venuto meno il regime di Damasco ogni fazione cercherà di perseguire il proprio obiettivo. Scontri interni fra gli “alleati temporanei” ci sono già stati. Per esempio tra Fronte al Nusra e la Brigata al- Faruq, una brigata affiliata all’Esercito Siriano Libero, nata nella provincia di Homs tra l’estate e l’autunno del 2011. Un leader della Brigata infatti è stato ucciso per vendetta dopo l’omicidio di un leader del Fronte al Nusra.
La brigata al- Faruq è uno dei gruppi che ha tenuto prigioniero l’inviato de la Stampa Domenico Quirico, (rapito in Siria il 9 aprile e rientrato in Italia domenica 8 settembre). Il giornalista scrive «Al Faruqè una brigata molto nota della rivoluzione siriana, fa parte del Consiglio Nazionale Siriano e i suoi rappresentanti incontrano i governi europei. L’Occidente si fida di loro ma ho imparato a miei spese che si tratta anche di un gruppo che rappresenta un fenomeno nuovo e allarmante della rivoluzione: l’emergere di gruppi banditeschi di tipo somalo, che approfittano della vernice islamista e del contesto della rivoluzione per controllar parte del territorio, taglieggiare la popolazione, sequestrare erubare»).
Un altro pericolo è rappresentato dal fatto che esistono grandi differenze non solo tra opposizione “laica” e jihadisti, ma anche tra jihadisti stessi.Ci sono fazioni ancorate ad una visione più transnazionale e settaria, appartenenti all’ala qaidista irachena (chiamata Stato islamico in Iraq) ed altre più legate ancorate alla realtà siriana. Una frammentazione che diventerà certo più evidente quando (se) il conflitto avrà fine. Da qualche mese ben 11 gruppi hanno creato un Fronte islamicosiriano unificato, ma Fronte al Nusra per ora non ha aderito, limitandosi ad azioni coordinate sul terreno.
Per capire meglio il perché della forte presenza jihadista in Siria, è necessario ricordare che – confinando con l’Iraq – durante gli anni dell’invasione statunitense, il Paese ha rappresentato un punto di passaggio ideale per i mujahidin che andavano a combattere in Iraq. Gli stessi sono ritornati in Siria già nel 2011 all’inizio delle rivolte. Questa volta non per combattere il nemico straniero invasore, ma Bashar al-Assad.
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Gli obiettivi di formazioni jihadiste come Jabhat al Nusra (il Fronte della Vittoria) e Dawla Islamiya fi Iraq wa Sham, (lo Stato Islamico nell’Iraq e nel Levante), si differenziano da quelli di altri gruppi di ribelli perché combattono il regime di Bashar al-Assad al fine di creare un Califfato islamico, basato sulla sharia (la legge islamica). Una visione che a noi può apparire fuori tempo e utopistica ma che invece rappresenta il nutrimento ideologico che alimento il jihad in Siria. Conosciuta storicamente come Bilad al-Sham, il territorio che un tempo comprendeva – oltre la Siria – anche il Libano, i territori palestinesi e parte della Giordania. E in questo obiettivo c’è un valore storico e simbolico. Proprio in questa zona nacque infatti il primo Califfato Islamico, quello degli Omayyadi , dal 661 al 750 d.c., con Damasco capitale.
Queste fazioni sono le più preparate dal punto di vista militare e le più attive, a loro si devono la maggior parte degli attacchi vincenti contro le forze del regime. E gli attentati di tipo iracheno in varie città siriane (la prima rivendicazione del gruppo Jabhat al Nusra è del 6 gennaio 2012, circa 10 mesi dopo le prime manifestazioni contro gli Assad). L’alleanza con fazioni dell’Esercito siriano Libero costituisce solo un tappa del percorso di Jahhat al Nusra. E qui sta il pericolo. Infatti se i ribelli riuscissero a rovesciare il regime e organizzare un nuovo potere, il gruppo jihadista continuerebbe a combattere contro gli ex alleati. La lotta contro un nemico comune, il regime di Assad, sta funzionando da collante ideologico, ma una volta venuto meno il regime di Damasco ogni fazione cercherà di perseguire il proprio obiettivo. Scontri interni fra gli “alleati temporanei” ci sono già stati. Per esempio tra Fronte al Nusra e la Brigata al- Faruq, una brigata affiliata all’Esercito Siriano Libero, nata nella provincia di Homs tra l’estate e l’autunno del 2011. Un leader della Brigata infatti è stato ucciso per vendetta dopo l’omicidio di un leader del Fronte al Nusra.
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