Formazione

“Miral” di Julian Schnabel: una storia di formazione che non trasmette emozioni

Titolo: Miral, regia di Julian Schnabel
Professione: studente
Parola chiave: formazione
Ambientazione: Gerusalemme, Territori Occupati
Genere: drammatico
Trailer:  http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Video/?key=47755|4775&ply=1

Come si fa a crescere, studiare, a mantenere la propria identità culturale, quando si vive in un Paese Occupato? Lo racconta il film Miral – basato sul libro della giornalista palestinese Rula Jebreal – e  presentato alla 67esima Mostra del cinema di Venezia.
Una storia di formazione. Quella della ragazzina Miral che cresce a Gerusalemme Est e, durante l’adolescenza, si trova affrontare la realtà dell’Occupazione, della guerra, della ribellione. Grazie all’amore del padre e all’istruzione ricevuta nell’istituto Al-Tifl al-Arabi, riuscirà a uscire dalla spirale di violenze di un Medio Oriente senza pace e andrà a vivere all’estero appena dopo gli accordi di Oslo del 1993.
Hind Husseini, che aveva fondato il collegio per dare rifugio gli orfani della guerra iniziata nel 1948, accoglie la piccola Miral, dopo il suicidio della madre. E dal primo momento le inculca il valore della cultura: “la differenza fra te e i ragazzi dei campi profughi è proprio l’istruzione”. Ancora Hindi la manda, 17enne,  va a lavorare come insegnante in un campo profughi. E’ il 1987. L’anno della prima Intifada, “la rivolta della pietre”.  E durante le ore passate fuori dall’ambiente protetto della scuola, Miral sperimenta la frustrazione dell’Occupazione, si trova faccia a faccia con la violenza e la repressione. S’innamora dell’attivista attivista Hani, è tentata. Partecipare attivamente alla resistenza o seguire la lezione di vita di “Mama Hind” che continua a ripetere  “istruzione è unica strada per la pace e la libertà”?

Un bel tema, più attuale che mai. Dato che oggi il diritto allo studio in Cisgiordania appare sempre più lontano, messo in serie difficoltà dal Muro di separazione e dai blocchi militari in costante aumento (circa 500 check point) che rendono complicato,  per studenti e professori, raggiungere scuole e Università. Come testimonia con dati e cifre dettagliati, la lettera di un gruppo di docenti italiani particolarmente sensibili alla situazione universitaria e scolastica del popolo palestinese.

In Cisgiordania, formazione al lavoro per giovani e donne palestinesi a cura di Acli e della cooperazione italiana

Le aule apriranno a luglio: lezioni di lingua italiana, per cominciare. Seguiranno i corsi per la formazione di operatori sociali, operatori per la progettazione e per artigiani specializzati nella lavorazione del legno e della madreperla.
Il nuovo Centro di Formazione Professionale per giovani palestinesi – inaugurato a Betlemme il 1° maggio scorso, dalle Acli -, realizzato con la Fondazione Giovanni Paolo II e l’Università per stranieri di Perugia, «vuole offrire un’opportunità di formazione e d’inserimento nel mondo del lavoro ai giovani palestinesi della Cisgiordania», come spiega il responsabile e coordinatore Riccardo Imberti. Ed è finanziato dalle Acli con i contributi del 5 per mille.
La Cisgiordania rappresenta la 140esima economia del pianeta. Metà della popolazione vive sotto la soglia della povertà. La dipendenza dagli aiuti internazionali, soprattutto europei, è elevata. Così come la percentuale di disoccupazione giovanile: nella fascia fra i 15 e i 24 anni, del 37% per i ragazzi e del 46,9% per le ragazze, secondo l’Ufficio Centrale di Statistica Palestinese.
Il progetto di sistemazione della scuola – ospitata nella Casa della Pace di Betlemme – è stato realizzato da Shadi Qumseya, un palestinese che ha frequentato l’Università per Stranieri di Perugia e si è laureato in ingegneria all’Università di Padova. «Gli aiuti ‘passivi’ non bastano – sostiene Riccardo Imberti – è importante che giovani come Shadi, completata la formazione, tornino nel loro Paese per mettere le competenze a disposizione di altri giovani».

Le storie di Lina e Himad – Il lavoro come riscatto, la formazione come opportunità

Un lavoro Himad ce l’ha. Ma preferisce rischiare e lasciarlo per potersi specializzare. Ha deciso. S’iscriverà al Corso di Formazione Professionale per la lavorazione della madreperla, alla Casa della Pace di Betlemme. Himad è un ragazzo di Gerico con un curriculum di studi in archeologia e la passione per i mosaici antichi. Un percorso di conoscenza non solo teorico. Himad, infatti, ha seguito anche programmi tecnici di realizzazione del mosaico. Con un obiettivo ben preciso, dedicarsi al restauro. Perché un patrimonio artistico non vada perduto. Perché il recupero dell’eredità culturale del suo popolo è importante. E per partecipare attivamente al miglioramento socio-economico della regione.

«In Terra Santa ci sono di siti archeologici ricchi di mosaici decorativi e la maggior parte ha bisogno d’interventi di pulitura e ripristino di parti mancanti». A questo punto incominciano le difficoltà. Himad si rende conto di non conoscere « la struttura geometrica impiegata per la costruzione dei mosaici» Sprattutto si trova alle prese con un materiale per lui sconosciuto, la madreperla. Decide di non arrendersi e di continuare l’iter professionale per colmare le mancanze e diventare un buon restauratore. Una scelta coraggiosa. E soprattutto faticosa e impegnativa. Per arrivare a Betlemme partendo da Gerico, bisogna superare due check point israeliani, e il tragitto può durare anche 4 o 5 ore. Ma Himad è tenace e non ha dubbi. Vuole rimanere nella sua terra e fare il lavoro che ama. «I sacrifici non contano se ti aiutano a raggiungere la meta».

Studenti fuori target: e io l’ho fatto, sono tornata all’università da grande!

Io l’ho fatto. Sono tornata a scuola da grande Mi sono iscritta di nuovo all’Università. Facoltà di Studi Orientali, Università La Sapienza. Anche se avevo già un mestiere che mi piaceva, una famiglia, una vita densa. Da sempre mi ero interessata al mondo arabo. Mi attraeva e incuriosiva. Così leggevo, mi documentavo, viaggiavo. Grazie al lavoro, avevo anche girato qualche reportage nel Maghreb e in Asia Centrale, lungo la via della Seta, a Samarcanda, Bukhara. Ma non ero soddisfatta. Mi mancavano le basi. Volevo conoscere la parte di storia mancante.
Studiare il passato per tentare di capire meglio il presente. Imparare la lingua e mettere al posto giusto le tessere mancanti del puzzle.
La struttura accademica mi è sembrata subito la soluzione migliore. In Canada ho amiche che si laureano, si sposano, hanno figli e poi ritornano all’Università per specializzarsi. Trovano un lavoro, si fermano, si rimettono a studiare. Per un dottorato magari. Oppure ricominciano da capo dopo aver scoperto nuovi interessi.
Insomma, iscrivendomi, non pensavo di fare qualcosa di strano.
Invece, a quanto pare, ho compiuto un atto rivoluzionario. Certo, gli amici, quelli veri, si sono entusiasmati. Ho trovato appoggio nei docenti e avvertito spesso sincera ammirazione da parte dei miei neo colleghi. Loro, i ragazzi. Gli studenti legittimi e legittimati.
Ma il coro più sostenuto rumoreggiava in sottofondo: “Che idea, rimettersi a studiare”, “E le prospettive, scusa?”, “Arabo? Auguri!”.
Primo sottotesto: dov’è la convenienza?  In tempi di morale produttivistica, il tempo ha valore solo se rende in termini economici sicuri e immediati.  Spenderlo a fondo perduto, una follia.
Secondo sottotesto: alla tua età.