Fratelli Musulmani
Pillole di storia: Il Movimento dei Fratelli Musulmani
Spesso citati senza spiegazione sui quotidiani (soprattutto in relazione all’Egitto) dopo il colpo di Stato del generale Abdel Fattah al-Sisi, il 3 luglio 2013 e la destituizione del Presidente Mohammad Morsi, i Fratelli musulmani, dal punto di vista storico, rappresentano un Movimento fondato in Egitto nel 1928 da Hasan al-Banna. Esso segna la nascita del moderno Islam politico.
Raccontare l’Egitto- Egitto Democrazia Militare
«Che cosa si dice in Italia del Colpo di Stato in Egitto contro il presidente Morsi»? Mi scriveva Omar, un giovane Fratello Musulmano che avevo conosciuto al Cairo, tre mesi prima di quel 3 luglio 2013. La stessa domanda di molti amici egiziani che non parteggiavano per Morsi ma neppure per l’esercito, come Mahmoud. Insieme con me, il 22 marzo del 2013, aveva visto la polizia assistere senza intervenire alle violenze fra sostenitori e oppositori dei Fratelli musulmani, davanti alla sede principale del braccio politico della Fratellanza, il Partito Libertà e Giustizia, nel quartiere di Moqattam. Era uno di quelli che temeva un colpo di stato.
Rispondevo che l’Italia, come altre cancellerie occidentali, non lo chiamava “colpo di stato”. E che i media mainstream nostrani lo definivano «l’espressione della volontà popolare sostenuta dall’esercito», «una seconda rivoluzione». Che in molti si affannavano a ripetere che la democrazia era rimasta intatta e Omar replicava: «Come possono dichiararlo se un presidente, democraticamente eletto, è stato destituito dai vertici militari con la forza»?
Eppure, in Italia, se cercavi di affermare il contrario eri zittito, spesso attaccato. Per fortuna, Giuseppe Acconcia non si è fatto zittire, non si è “allineato” e ha scritto un libro dal titolo volutamente provocatorio: “Egitto – Democrazia militare”, il primo libro onesto che ho letto sull’Egitto e i suoi cambiamenti negli ultimi quattro anni. Il primo che racconta come il Movimento di piazza si sia trasformato in un Colpo di Stato Militare e come il Paese viva ormai in una condizione di completo controllo politico, sociale e di dura repressione sotto la presidenza di Abdel Fattah al-Sisi: ex generale e membro del Consiglio supremo delle Forze armate eletto, con un voto boicottato dalla maggioranza degli egiziani, il 27 maggio 2014.
Il primo che non minimizza la strage di Rabaa, del 14 agosto 2013: «Non posso cancellare il ricordo del massacro di Rabaa al Adaweya- scrive Giuseppe Acconcia- ottocento settantasette morti (secondo altre fonti, quel giorno, sono oltre duemila e ottocento le persone scomparse) ». Testimone di quell’inferno scrive ancora: «i corpi di decine di ragazzi e uomini adulti, i volti straziati di donne e giovani, il rosso vivo del loro sangue ricordano che queste persone indifese sono state attaccate alle prime luci dell’alba da poliziotti armati fino ai denti, sono stati massacrati da criminali in borghese sguinzagliati alla rinfusa ». Contestavano il colpo di stato e sono stati trucidati. «Che cosa si dice in Italia dei morti di Rabaa? Non me lo chiedeva più Omar, scomparso proprio a Rabaa (sopravvivrà, pur se segnato, a un duro periodo in carcere) ma Ibrahim, del Movimento 6 Aprile, turbato e pentito di aver creduto, in un primo momento, a un’alleanza possibile fra i movimenti civili e i militari. «In Italia, sono apparsi come morti di serie B senza importanza » ho dovuto rispondere.
Ma il reportage di Giuseppe Acconcia, ricercatore e giornalista, sostenuto da una profonda cultura storica e sociale sull’Egitto, ricompone il quadro degli eventi con chiarezza. E come il grande Egisto Corradi – autore della celebre frase, il vero giornalismo si fa consumando la suola delle scarpe – viaggia attraverso il paese raccogliendo testimonianze, preferendo la “presa diretta”, le chiacchierate con la gente, operai, sindacalisti, studenti. Non solo il Cairo dunque, perché non si deve «ingabbiare l’opposizione al regime all’interno di piazza Tahrir». Ma anche Port Said per incontrare le famiglie degli ultras uccisi dagli uomini vicini al Partito nazional- democratico di Mubarak. E ancora le fabbriche di Mahalla al-Kubra, sul Delta del Nilo dove i Fratelli Musulmani sono accusati di «essere dei feloul, uomini del vecchio regime». Il Sinai, terra di jihadisti alleati di volta in volta con contrabbandieri e giovani beduini. E ancora Alessandria e Suez «città di soldati e lavoratori». Una storia costruita “dal basso” attenta ai dettagli, alle sensazioni, agli umori, a tutte le voci. Perché l’autore racconta anche la contestata elezione del presidente Mohammad Morsi, il 30 giugno 2012, gli errori dei Fratelli Musulmani e il fallimento al governo. Un reportage che descrive quattro anni di movimenti sociali e aspirazioni finiti nella repressione», dalle barricate degli attivisti di piazza Tahrir alla strumentalizzazione dei movimenti giovanili, civili, liberal e di sinistra, fino al ritorno all’ordine imposto dalla casta militare con «atti criminali sistematici contro i civili, processi politici, detenzioni di massa, omicidi, minacce, tortura nelle carceri».
Il libro di Giuseppe Acconcia però è ancora altro. Rappresenta un atto di coraggio di onestà e d’indipendenza, in un paese dove molti inviati delle testate a larga diffusione si affidano ai lanci delle agenzie stampa o a fixer di parte senza andare a “ficcare il naso dove succedono le cose” o non sono preparati dal punto di vista storico e quindi incapaci d’interpretare i fatti in maniera corretta. Oppure (e questa è la cosa peggiore) si piegano al servizio della politica, dell’economia, distorcendo l’informazione. Troppo spesso in Italia i mass media riportano concetti facili da assimilare, ripetuti in ogni articolo o notiziario, così da essere introiettati dalla gente, diventando verità impossibili da sradicare. Così, un colpo di Stato militare è definito “democratico”. La repressione con le armi, “ordine pubblico”. Un presidente deposto è subito “ex presidente”. Il massacro di Rabaa, “sgombero”. Gli islamisti, “terroristi” senza distinzioni. «Il massacro di Rabaa ha riportato indietro l’Egitto di decenni – scrive invece l’autore – alla totale arbitrarietà dell’élite militare, connivente con polizia e giudici. Lo spazio della contestazione da sinistra e da destra, nelle fabbriche e nelle università, da parte dei think tank è ora completamente azzerato. Il modello dominante, forgiato da Sisi, è la guerra generica dello Stato contro il terrorismo».
Che cosa succederà in Egitto? Per ora viene in mente una frase del film La battaglia di Algeri‘ di Gillo Pontecorvo: «Iniziare una rivoluzione è difficile, ancora più difficile è continuarla, e difficilissimo è vincerla. Ma sarà solo dopo, quando avremo vinto, che inizieranno le vere difficoltà».
Egitto Democrazia Militare di Giuseppe Acconcia
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Nell’autunno dello scontento saudita
Madawi al-Rasheed, docente saudita al King’s College dell’Università di Londra, nel testo «Storia dell’Arabia Saudita» analizza a fondo l’avvicinamento del Regno arabo agli Stati Uniti durante gli anni Ottanta, raccontando come «Fahd, più di ogni altro leader saudita portò avanti una relazione speciale con gli States, stringendo rapporti militari, economici e politici. Di fronte all’instabilità della situazione del Golfo causata allora dal rovesciamento dello Shah in Iran e dalla guerra fra Iran e Iraq, l’Arabia Saudita cercò l’appoggio americano per difendersi da quella che considerava la minaccia della Repubblica islamica di Teheran e dal potenziale pericolo rappresentato dall’Unione Sovietica».
Un’alleanza storica quindi, nata già nel 1932, per volere re Abdul Aziz. Le ragioni oggi sembrano paradossali ma re Abdul Aziz preferì stabilire un patto di alleanza con gli Stati Uniti piuttosto che con la Gran Bretagna «perché gli statunitensi non avevano ambizioni imperialistiche».
La relazione oggi scricchiola? I Sauditi sono tesi e suscettibili. Hanno rifiutato di tenere il discorso all’assemblea generale dell’Onu e il 18 ottobre scorso hanno rinunciato al seggio non permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Non approvano l’avvicinamento del Presidente Usa Barak Obama al Presidente della Repubblica Islamica iraniana, Hassan Rohani. E lo dimostrano apertamente. Un cambio di rotta positivo quello degli Stati Uniti, ma i Sauditi non la vedono i questo modo. Dal 1979, anno della rivoluzione di Khomeini in Iran infatti, gli Stati Uniti e Arabia Saudita si erano sempre opposti al regime religioso di Teheran. Ma dopo i segnali di distensione e di aperture diplomatiche del nuovo presidente iraniano, Hassan Rohani, gli Stati Uniti hanno incominciato a trattare con l’Iran un accordo sul nucleare.
Altri dissapori. Gli Stati Uniti hanno inutilmente chiesto alla Casa Regnante Saudita di mitigare, in Egitto, la repressione del generale al- Sisi contro i Fratelli Musulmani. Ma i Sauditi, alleati del Hosni Mubarak, avevano già dissentito quando il Presidente Obama aveva appoggiato la piazza egiziana contro il Rais. Forti oppositori dei Fratelli Musulmani si erano irritati nell’assistere al suo sostegno alla Fratellanza, salita al potere attraverso regolari elezioni.
Il terreno siriano ha fornito ai Sauditi altri motivi di malcontento. La decisione di Washington del 27 settembre scorso di sospendere l’attacco annunciato contro la Siria di Bashar al- Assad. E possiamo immaginare i tormenti della Casa Reale che ha dovuto assistere all’accordo fra Stati Uniti e Russia sul disarmo dell’ arsenale chimico siriano.
In contrasto sull’Egitto, la Siria e l’Iran, rimane comunque un collante fra gli Stati Uniti e l’Arabia, la lotta comune contro il terrorismo e i gruppi legati ad Al- Qaida che si stanno diffondendo, rafforzati, in molti Paesi dell’area mediorientale.
L’Arabia Saudita è guidata da una classe dirigente anziana e si sta dimostrando piuttosto rigida nell’accogliere mutamenti. Ma in quanto sede della Mecca e dei santuari piu’ sacri dell’Islam, la sua politica non interessa solo la popolazione interna ma milioni di musulmani nel mondo. Impossibile non tenerne conto.
Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro Nell’autunno dello scontento saudita (riproducibile citando la fonte)
Madawi al-Rasheed, docente saudita al King’s College dell’Università di Londra, nel testo «Storia dell’Arabia Saudita» analizza a fondo l’avvicinamento del Regno arabo agli Stati Uniti durante gli anni Ottanta, raccontando come «Fahd, più di ogni altro leader saudita portò avanti una relazione speciale con gli States, stringendo rapporti militari, economici e politici. Di fronte all’instabilità della situazione del Golfo causata allora dal rovesciamento dello Shah in Iran e dalla guerra fra Iran e Iraq, l’Arabia Saudita cercò l’appoggio americano per difendersi da quella che considerava la minaccia della Repubblica islamica di Teheran e dal potenziale pericolo rappresentato dall’Unione Sovietica».
Un’alleanza storica quindi, nata già nel 1932, per volere re Abdul Aziz. Le ragioni oggi sembrano paradossali ma re Abdul Aziz preferì stabilire un patto di alleanza con gli Stati Uniti piuttosto che con la Gran Bretagna «perché gli statunitensi non avevano ambizioni imperialistiche».
La relazione oggi scricchiola? I Sauditi sono tesi e suscettibili. Hanno rifiutato di tenere il discorso all’assemblea generale dell’Onu e il 18 ottobre scorso hanno rinunciato al seggio non permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Non approvano l’avvicinamento del Presidente Usa Barak Obama al Presidente della Repubblica Islamica iraniana, Hassan Rohani. E lo dimostrano apertamente. Un cambio di rotta positivo quello degli Stati Uniti, ma i Sauditi non la vedono i questo modo. Dal 1979, anno della rivoluzione di Khomeini in Iran infatti, gli Stati Uniti e Arabia Saudita si erano sempre opposti al regime religioso di Teheran. Ma dopo i segnali di distensione e di aperture diplomatiche del nuovo presidente iraniano, Hassan Rohani, gli Stati Uniti hanno incominciato a trattare con l’Iran un accordo sul nucleare.
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Opinione pubblica divisa in Egitto – Attese, speranze e delusioni
Il Cairo Due giovani “reduci” di piazza Tahir scrivono nel gennaio del 2012, due pièces teatrali sul tema della Rivoluzione. Due visioni diverse, anzi opposte, che sintetizzano gli umori dell’Egitto in questo momento. Un Paese dove l’opinione pubblica è divisa e l’aria che si respira è un misto di gorgoglio rivoluzionario, attesa, delusione.
Muhammad Kamal el din Abo Alela è l’autore di “Ero in Italia”, la commedia rappresentata martedì all’Istituto di Cultura italiana . Ha 21 anni ed è studente di Lettere al Dipartimento di Italianistica della Cairo University. Racconta: “Ho preso parte alle manifestazioni contro Mubarak come indipendente poi mi sono unito ai Giovani Fratelli Musulmani”. Attivo politicamente, Muhammad non ha dubbi: “Dobbiamo avere pazienza. Un cambio di governo non risolve di colpo i problemi di un Paese, il processo avviene per gradi”. E cita l’esempio della Rivoluzione Francese. “Il Presidente Morsi e i Fratelli Musulmani hanno ereditato una situazione difficile: un apparato statale corrotto, l’economia in crisi, uno stato di sicurezza fragile. Bisogna anche tener conto dell’inesperienza perché la Fratellanza è sempre stata all’Opposizione, perseguitata da ogni regime. Esiste infine un problema di comunicazione, credo. Però sono sicuro che il Presidente stia lavorando a grandi progetti che richiedono tempo. Le nuove proteste? È naturale che dopo anni di dittatura, la gente abbia voglia di esprimersi liberamente, di criticare. L’economia è a terra: disoccupazione e povertà alimentano il malessere sociale, ma sarebbe utopistico pensare che le casse dello Stato si possano riempire da sole e di colpo, per magia”. Continua la lettura su L’Indro http://www.lindro.it/politica/2013-03-14/74701-opinione-pubblica-divisa-in-egitto
Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro- riproducibile citando la fonte
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Il punto della situazione in Giordania
I risultati delle elezioni di mercoledi scorso (24 gennaio) erano scontati e non hanno prodotto nessun cambiamento. Affluenza alle urne intorno al 56% e vittoria dei candidati filo-governativi che hanno conquistato la maggioranza in Parlamento. I problemi però in Giordania rimangono. Malcontento popolare per le mancate riforme sociali; livello di corruzione in aumento;crisi economica aggravata dalla presenza di oltre 200 mila profughi siriani.
Le elezioni sono state boicottate dal Fronte Islamico d’Azione, braccio politico dei Fratelli Musulmani, come nel 2010. Ma la Fratellanza, in fondo, ha interesse a mantenere la Monarchia al potere. Nel Regno hascemita infatti la maggioranza della popolazione è di origine palestinese. E se Abdallah dovesse cadere, Israele potrebbe portare a buon fine un progetto che ha cuore da tempo. Proporre la riva orientale del fiume Giordano come patria ‘naturale’ dei palestinesi e giustificare così l’annessione della Cisgiordania. Un modo per risolvere il problema “dei due Stati”, che, ormai si è capito, non vuole affrontare.
Re Abdallah sembrava aver superato brillantemente la tempesta delle Primavere, nonostante le manifestazioni del 2011 e quelle più recenti. “Promesse non mantenute” mi aveva scritto Hamza, taxista di origini palestinesi, da Amman. “Qualche apertura ma in sostanza il sistema rimane lo stesso. Dalle elezioni non mi aspetto nulla. Conosciamo bene i problemi della Giordania e non ho visto veri interventi. La corruzione anzi è in aumento. I prezzi sono aumentati. E il re aveva promesso nuovi leggi e un sistema giudiziario più libero e indipendente”. Hamza, quando mi trovavo ad Amman e davanti agli innumerevoli ritratti del re dicevo ridendo che “non era molto avvenente” mi zittiva sempre preoccupato. “E’ pericoloso criticare il sovrano”. Non ha partecipato alle rivolte ma ora è uno dei tanti giovani disoccupati (circa il 40%) in un Paese dove il 60% della popolazione ha meno di 30 anni.
La Giordania non possiede petrolio (lo importa soprattutto dll’Iraq). Una terra arida, che era riuscita a sviluppare un discreto turismo, ora messo però alla prova dall’instabilità dell’area. La Siria in preda a una violenta guerra civile viene vista come un propagatore di ‘virus’ e sforna ogni giorno profughi, che vanno a pesare su un economia in crisi in un paese in piena crisi di identità. Un altro problema: i jihadisti giordani che vanno ad unirsi alle forze anti- Assad in Siria.
Nonostante l’immagine glamour costruita attorno alla Regina Rania, la Giordania questa volta potrebbe essere contagiata dai mutamenti regionali. Abdallah II intanto è stato costretto a chiedere un alto prestito al Fondo Monetario: 2 miliardi di dollari.
Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro Il punto della situazione in Giordania (riproducibile citando la fonte)