Fratelli Musulmani

Pillole di storia: Il Movimento dei Fratelli Musulmani

 

Spesso citati senza spiegazione sui quotidiani (soprattutto in relazione all’Egitto) dopo il colpo di Stato del generale Abdel Fattah al-Sisi, il 3 luglio 2013 e la destituizione del Presidente Mohammad Morsi, i Fratelli musulmani, dal punto di vista storico, rappresentano un Movimento fondato in Egitto nel 1928 da Hasan al-Banna. Esso segna la nascita del moderno Islam politico

Egitto. Democrazia Militare - Acconcia Giuseppe - ediz. Exorma

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«Che cosa si dice in Italia del Colpo di Stato in Egitto contro il presidente Morsi»? Mi scriveva Omar, un giovane Fratello Musulmano che avevo conosciuto al Cairo, tre mesi prima di quel 3 luglio 2013. La stessa domanda di molti amici egiziani che non parteggiavano per Morsi ma neppure per l’esercito, come Mahmoud. Insieme con me, il 22 marzo del 2013, aveva visto la polizia assistere senza intervenire alle violenze fra sostenitori e oppositori dei Fratelli musulmani, davanti alla sede principale del braccio politico della Fratellanza, il Partito Libertà e Giustizia, nel quartiere di Moqattam. Era uno di quelli che temeva un colpo di stato.

Rispondevo che l’Italia, come altre cancellerie occidentali, non lo chiamava “colpo di stato”. E che i media mainstream nostrani lo definivano «l’espressione della volontà popolare sostenuta dall’esercito», «una seconda rivoluzione». Che in molti si affannavano a ripetere che la democrazia era rimasta intatta e Omar replicava: «Come possono dichiararlo se un presidente, democraticamente eletto, è stato destituito dai vertici militari con la forza»?

Eppure, in Italia, se cercavi di affermare il contrario eri zittito, spesso attaccato. Per fortuna, Giuseppe Acconcia non si è fatto zittire, non si è “allineato” e ha scritto un libro dal titolo volutamente provocatorio: “Egitto – Democrazia militare”, il primo libro onesto che ho letto sull’Egitto e i suoi cambiamenti negli ultimi quattro anni. Il primo che racconta come il Movimento di piazza si sia trasformato in un Colpo di Stato Militare e come il Paese viva ormai in una condizione di completo controllo politico, sociale e di dura repressione sotto la presidenza di Abdel Fattah al-Sisi: ex generale e membro del Consiglio supremo delle Forze armate eletto, con un voto boicottato dalla maggioranza degli egiziani, il 27 maggio 2014.

Il primo che non minimizza la strage di Rabaa, del 14 agosto 2013: «Non posso cancellare il ricordo del massacro di Rabaa al Adaweya- scrive Giuseppe Acconcia- ottocento settantasette morti (secondo altre fonti, quel giorno, sono oltre duemila e ottocento le persone scomparse) ». Testimone di quell’inferno scrive ancora: «i corpi di decine di ragazzi e uomini adulti, i volti straziati di donne e giovani, il rosso vivo del loro sangue ricordano che queste persone indifese sono state attaccate alle prime luci dell’alba da poliziotti armati fino ai denti, sono stati massacrati da criminali in borghese sguinzagliati alla rinfusa ». Contestavano il colpo di stato e sono stati trucidati. «Che cosa si dice in Italia dei morti di Rabaa? Non me lo chiedeva più Omar, scomparso proprio a Rabaa (sopravvivrà, pur se segnato, a un duro periodo in carcere) ma Ibrahim, del Movimento 6 Aprile, turbato e pentito di aver creduto, in un primo momento, a un’alleanza possibile fra i movimenti civili e i militari. «In Italia, sono apparsi come morti di serie B senza importanza » ho dovuto rispondere.

Ma il reportage di Giuseppe Acconcia, ricercatore e giornalista, sostenuto da una profonda cultura storica e sociale sull’Egitto, ricompone il quadro degli eventi con chiarezza. E come il grande Egisto Corradi – autore della celebre frase, il vero giornalismo si fa consumando la suola delle scarpe – viaggia attraverso il paese raccogliendo testimonianze, preferendo la “presa diretta”, le chiacchierate con la gente, operai, sindacalisti, studenti. Non solo il Cairo dunque, perché non si deve «ingabbiare l’opposizione al regime all’interno di piazza Tahrir». Ma anche Port Said per incontrare le famiglie degli ultras uccisi dagli uomini vicini al Partito nazional- democratico di Mubarak. E ancora le fabbriche di Mahalla al-Kubra, sul Delta del Nilo dove i Fratelli Musulmani sono accusati di «essere dei feloul, uomini del vecchio regime». Il Sinai, terra di jihadisti alleati di volta in volta con contrabbandieri e giovani beduini. E ancora Alessandria e Suez «città di soldati e lavoratori». Una storia costruita “dal basso” attenta ai dettagli, alle sensazioni, agli umori, a tutte le voci. Perché l’autore racconta anche la contestata elezione del presidente Mohammad Morsi, il 30 giugno 2012, gli errori dei Fratelli Musulmani e il fallimento al governo. Un reportage che descrive quattro anni di movimenti sociali e aspirazioni finiti nella repressione», dalle barricate degli attivisti di piazza Tahrir alla strumentalizzazione dei movimenti giovanili, civili, liberal e di sinistra, fino al ritorno all’ordine imposto dalla casta militare con «atti criminali sistematici contro i civili, processi politici, detenzioni di massa, omicidi, minacce, tortura nelle carceri».

Il libro di Giuseppe Acconcia però è ancora altro. Rappresenta un atto di coraggio di onestà e d’indipendenza, in un paese dove molti inviati delle testate a larga diffusione si affidano ai lanci delle agenzie stampa o a fixer di parte senza andare a “ficcare il naso dove succedono le cose” o non sono preparati dal punto di vista storico e quindi incapaci d’interpretare i fatti in maniera corretta. Oppure (e questa è la cosa peggiore) si piegano al servizio della politica, dell’economia, distorcendo l’informazione. Troppo spesso in Italia i mass media riportano concetti facili da assimilare, ripetuti in ogni articolo o notiziario, così da essere introiettati dalla gente, diventando verità impossibili da sradicare. Così, un colpo di Stato militare è definito “democratico”. La repressione con le armi, “ordine pubblico”. Un presidente deposto è subito “ex presidente”. Il massacro di Rabaa, “sgombero”. Gli islamisti, “terroristi” senza distinzioni. «Il massacro di Rabaa ha riportato indietro l’Egitto di decenni – scrive  invece l’autore – alla totale arbitrarietà dell’élite militare, connivente con polizia e giudici. Lo spazio della contestazione da sinistra e da destra, nelle fabbriche e nelle università, da parte dei think tank è ora completamente azzerato. Il modello dominante, forgiato da Sisi, è la guerra generica dello Stato contro il terrorismo».

Che cosa succederà in Egitto? Per ora viene in mente una frase del film La battaglia di Algeri‘ di Gillo Pontecorvo: «Iniziare una rivoluzione è difficile, ancora più difficile è continuarla, e difficilissimo è vincerla. Ma sarà solo dopo, quando avremo vinto, che inizieranno le vere difficoltà».

Egitto Democrazia Militare di Giuseppe Acconcia
Exorma Editore (14 euro) in vendita su Amazon

Nell’autunno dello scontento saudita

Madawi al-Rasheed, docente saudita al King’s College dell’Università di Londra, nel testo «Storia dell’Arabia Saudita» analizza a fondo l’avvicinamento del Regno arabo agli Stati Uniti durante gli anni Ottanta, raccontando come «Fahd, più di ogni altro leader saudita portò avanti una relazione speciale con gli States, stringendo rapporti militari, economici e politici. Di fronte all’instabilità della situazione del Golfo causata allora dal rovesciamento dello Shah in Iran e dalla guerra fra Iran e Iraq, l’Arabia Saudita cercò l’appoggio americano per difendersi da quella che considerava la minaccia della Repubblica islamica di Teheran e dal potenziale pericolo rappresentato dall’Unione Sovietica».

Un’alleanza storica quindi,  nata già nel 1932, per volere re Abdul Aziz.  Le ragioni oggi sembrano paradossali ma re Abdul Aziz preferì  stabilire un patto di alleanza con gli Stati Uniti piuttosto che con la Gran Bretagna «perché gli statunitensi non avevano ambizioni imperialistiche».

La relazione oggi scricchiola? I Sauditi sono tesi e suscettibili. Hanno rifiutato di tenere il discorso all’assemblea generale dell’Onu e il 18 ottobre scorso hanno rinunciato al seggio non permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

 Non approvano l’avvicinamento del Presidente Usa  Barak Obama al Presidente della Repubblica Islamica iraniana,  Hassan Rohani.  E lo dimostrano apertamente.  Un cambio di rotta positivo quello degli Stati Uniti,  ma i Sauditi non la vedono i questo modo. Dal 1979, anno della rivoluzione di Khomeini in Iran infatti, gli Stati Uniti e Arabia Saudita si erano sempre opposti al regime religioso di Teheran. Ma dopo i segnali di distensione  e di aperture diplomatiche del nuovo presidente iraniano, Hassan Rohani, gli Stati Uniti hanno  incominciato a trattare con l’Iran un accordo sul nucleare. 

Altri dissapori.  Gli Stati Uniti hanno inutilmente chiesto alla Casa Regnante Saudita  di mitigare, in Egitto, la repressione del  generale al- Sisi contro i Fratelli Musulmani.  Ma i Sauditi,  alleati del Hosni Mubarak, avevano già dissentito quando il Presidente Obama aveva appoggiato la piazza egiziana contro il Rais. Forti oppositori dei Fratelli Musulmani  si erano irritati nell’assistere al  suo sostegno alla Fratellanza, salita al potere attraverso regolari elezioni.

Il terreno siriano ha fornito ai Sauditi altri motivi di  malcontento. La decisione  di Washington del 27 settembre scorso di sospendere l’attacco annunciato contro la Siria di Bashar al- Assad. E  possiamo immaginare i tormenti della Casa Reale  che ha dovuto assistere all’accordo fra Stati Uniti e Russia sul disarmo dell’ arsenale chimico siriano.  

In contrasto sull’Egitto, la Siria e l’Iran, rimane comunque un collante fra gli Stati Uniti e l’Arabia,  la lotta comune contro il terrorismo e i gruppi legati ad Al- Qaida che si stanno diffondendo, rafforzati, in molti Paesi dell’area mediorientale.

L’Arabia  Saudita è guidata da  una classe dirigente anziana e si sta dimostrando piuttosto rigida nell’accogliere mutamenti. Ma in quanto sede della Mecca e dei santuari piu’ sacri dell’Islam, la sua politica non interessa solo la popolazione  interna ma milioni di musulmani nel mondo. Impossibile non tenerne conto.

Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro Nell’autunno dello scontento saudita (riproducibile citando la fonte)

 

Madawi al-Rasheed, docente saudita al King’s College dell’Università di Londra, nel testo «Storia dell’Arabia Saudita» analizza a fondo l’avvicinamento del Regno arabo agli Stati Uniti durante gli anni Ottanta, raccontando come «Fahd, più di ogni altro leader saudita portò avanti una relazione speciale con gli States, stringendo rapporti militari, economici e politici. Di fronte all’instabilità della situazione del Golfo causata allora dal rovesciamento dello Shah in Iran e dalla guerra fra Iran e Iraq, l’Arabia Saudita cercò l’appoggio americano per difendersi da quella che considerava la minaccia della Repubblica islamica di Teheran e dal potenziale pericolo rappresentato dall’Unione Sovietica».

Un’alleanza storica quindi,  nata già nel 1932, per volere re Abdul Aziz.  Le ragioni oggi sembrano paradossali ma re Abdul Aziz preferì  stabilire un patto di alleanza con gli Stati Uniti piuttosto che con la Gran Bretagna «perché gli statunitensi non avevano ambizioni imperialistiche».

La relazione oggi scricchiola? I Sauditi sono tesi e suscettibili. Hanno rifiutato di tenere il discorso all’assemblea generale dell’Onu e il 18 ottobre scorso hanno rinunciato al seggio non permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

 Non approvano l’avvicinamento del Presidente Usa  Barak Obama al Presidente della Repubblica Islamica iraniana,  Hassan Rohani.  E lo dimostrano apertamente.  Un cambio di rotta positivo quello degli Stati Uniti,  ma i Sauditi non la vedono i questo modo. Dal 1979, anno della rivoluzione di Khomeini in Iran infatti, gli Stati Uniti e Arabia Saudita si erano sempre opposti al regime religioso di Teheran. Ma dopo i segnali di distensione  e di aperture diplomatiche del nuovo presidente iraniano, Hassan Rohani, gli Stati Uniti hanno  incominciato a trattare con l’Iran un accordo sul nucleare.

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Dove sta andando l’Egitto?

Fra ondate di ultranazionalismo, autocensura della stampa indipendente, crisi economica, ‘demonizzazione dei Fratelli Musulmani’, in Egitto esploderà una terza rivoluzione? Abbiamo raggiunto, al Cairo, il Professor Gennaro Gervasio, docente di Storia e Politica del Medio Oriente all’Università Britannica per fare un punto sulla situazione.

I giovani di Piazza Tahrir della rivoluzione del gennaio 2011, non sembrano soddisfatti della situazione in Egitto. Di fatto sono stati esclusi di nuovo. Che cosa ne pensa?

Ci sarebbe innanzitutto da chiarire chi siano ‘i giovani di piazza Tahrir’. Una parte di questi avevano tentato la via della politica istituzionale, dei partiti quindi, per ritrovarsi però chiusi e delusi dall’asfissia del vecchio sistema politico egiziano, fatto di accordi sottobanco e di politica personalistica. Altri – compresi molti che non avevano partecipato alla Rivoluzione del 2011 e che si sono attivati solo contro i Fratelli Musulmani – avevano visto il movimento Tamarrod come luogo possibile per ripristinare il processo di cambiamento. Purtroppo, era chiaro che nel Tamarrod coesistevano, in maniera assolutamente opportunista, rivoluzionari, reazionari e ‘indecisi’. Ora quindi, per riassumere, la rivoluzione, intesa come cambiamento socio-economico ancora prima che politico, e riassunta nel famoso slogan ‘pane, libertà e giustizia sociale’ è schiacciata dalla tenaglia delle due forze o raggruppamenti contro-rivoluzionari (Fratelli Musulmani contro militari e reazionari), che si erano già coalizzati in maniera precaria, nel marzo 2011 per bloccare il processo rivoluzionario. E che, in questo momento, sono alla resa dei conti. I Fratelli, con le loro tattiche perdenti, stanno avendo chiaramente la peggio. Un atteggiamento autolesionista, direi, perché rafforza l’idea che li considera ‘terroristi’.

Si parla di un terzo movimento, una piazza che non si colloca né dalla parte dell’esercito né dalla parte dei Fratelli musulmani, sta veramente prendendo piede?
Il gruppo è formato da attivisti che si pongono come obiettivo quello di tornare ai principi originari del 25 gennaio 2011. Ideali di giustizia sociale quindi. Contro la violenza dell’esercito e contro il settarismo dei Fratelli Musulmani. Però è ancora piuttosto limitato.

Secondo lei il  processo di islamizzazione di cui è stato accusato l’ex Presidente Morsi è stato davvero così grave? In realtà  non era stata avviata una ‘dittatura  religiosa’ con i Fratelli Musulmani al potere. Il tanto discusso articolo sulla licenza degli alcolici, per esempio,  mirava a rendere più difficile la vendita degli alcolici, non ad abolirla, e non è stato mai applicato. Anche la Costituzione -fatta approvare in tutta fretta da Muḥammad Morsi, nell’autunno del 2012- non era così  retrograda da implicare una trasformazione radicale, in senso islamico, dei costumi egiziani. La shari’a era la principale fonte della legislazione anche nella Costituzione permanente di Sadat del 1971, emendata in questo senso nel 1980 e valida fino alla caduta di Hosni Mubarak. Il problema, piuttosto, è stato quello della svolta autoritaria dell’ex Presidente Morsi. E’ prevalsa l’ala più conservatrice con  il conseguente  ‘golpe bianco’,  la subordinazione della  Corte costituzionale al Presidente. E l’accentramento del potere. La crisi economica è pesante. Dal  gennaio 2011, l’Egitto ha visto alternarsi Governi di natura diversa, da quello militare a quello islamista, senza però assistere ad un miglioramento delle condizioni socio-economiche della popolazione. Il tasso di disoccupazione è sempre  intorno al 13%, è la Banca Mondiale calcola che un quinto della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Senza dubbio la crisi non migliora con lo stato di emergenza e il coprifuoco. Il Cairo è una città che vive di notte.  Ora il coprifuoco è a mezzanotte (e il venerdì l’orario è rimasto alle 19) ma le attività di ristorazione e commerciali si arrestano molto prima per dare modo alla gente di rientrare. Quindi in pratica alle 10, 10,30. E finché dura l’instabilità politica e i carri armati stazioneranno nelle strade, è impossibile che il turismo prenda piede.  Secondo un portavoce del Governo, lo stato d’emergenza imposto in Egitto il 12 agosto, alla vigilia dello sgombero forzato delle piazze della protesta pro-Morsi, terminerà a metà novembre e non verrà prorogato. Vedremo.. Un altro nodo cruciale dell’Egitto: la libertà di stampa, com’è al momento la situazione? Si sta assistendo ad un incredibile fenomeno di autocensura della stampa indipendente. I giornalisti egiziani si sono uniti al coro della propaganda nazionalista.  Il nazionalismo dilaga nelle strade del Cairo e la stampa indipendente, sembra  affetta da uno ‘strabismo’ che impedisce di vedere. Meglio, a questo punto, la televisione o i media di Stato.   Intanto i  Cinquanta costituenti sono riuniti per riscrivere la Costituzione. Centinaia di studenti dell’Università islamica di al-Azhar al Cairo manifestano per il terzo giorno consecutivo contro il  golpe dei militari che ha deposto l’ex presidente Mohammed Morsi. Una quarantina di studenti sono già stati arrestati ed è stata  rinviata per la terza volta l’inaugurazione dell’anno accademico, per ragioni di sicurezza.

Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro Dove sta andando l’Egitto? (riproducibile citando la fonte)

Vedi anche:

 

L’Egitto e l’Islam politico

Intervista a Massimo Campanini

 

Gli eventi  in Egitto hanno riacceso il gran dibattito fra gli studiosi sulla ‘morte dell’Islam politico’ e sulla ‘fine dei Fratelli musulmani’. Un fallimento profetizzato già da Olivier Roy agli inizi degli anni ’90 e sconfessato dalla storia. Si sa che perdere una battaglia non significa perdere la guerra. E le analisi che mostrano un Islam politico alla fine del percorso, sono certo premature.

Effetto Siria e Contagio egiziano

Reazioni in Medio Oriente

Sugli schermi della televisione siriana passa a ripetizione uno spot che mostra un dattero, alimento tradizionale del Ramadan, che contiene un proiettile. Sotto, una scritta: «Non rovinate il Ramadan con la violenza». Era l’11 agosto 2012, un anno e un mese fa, ad Aleppo. Quest’anno il Ramadan è iniziato il 9 o il 10 luglio (varia da Paese in Paese secondo le fasi lunari), ma in Siria le armi

Fratelli d’Egitto

Fratelli MusulmaniChi sono i Fratelli Musulmani? Perché fanno così paura all’Occidente? I rapporti tra la Fratellanza e gli Stati Uniti

Bisogna conoscere il passato, la storia, ma anche seguirne i cambiamenti, il flusso, senza fossilizzarsi, per provare a capire qualcosa della realtà in cui viviamo. Scrive polemica, la storica e analista politica Paola Caridi a proposito dei Fratelli Musulmani«L’interpretazione, la vulgata, varia dal ‘sono terroristi, sono Al Qaeda, sostengono Ayman Al Zawahri’ al ‘fanno il doppio gioco, non usano la violenza ma la userebbero, e se anche non la usassero, farebbero un califfato, uno stato islamico’».

Un passo indietro. Il movimento dei Fratelli Musulmani è stato fondato in Egitto nel 1928 da Hasan al-Banna.  E segna la nascita del moderno Islam politico. Un piccolo gruppo quello degli Ihkwan, che si è trasformato presto in una potente organizzazione, da sempre osteggiata e combattuta dai regimi arabi. L’ideologia della Fratellanza è basata sulla concezione secondo cui l’Islam è la soluzione a tutti i problemi individuali, sociali e politici. E il successo del Movimento si spiega proprio con la combinazione di questi fattori.  Sul piano ideologico Massimo Campanini – esperto in pensiero politico islamico- ricorda il filosofo egiziano Hasan Hanafi che sosteneva: «l’Islam contemporaneo è vivo perché è l’unico sistema politico e ideologico che non si è arreso alla visione del mondo dominante imposta dall’Occidente». I Fratelli Musulmani «rappresentano un movimento conservatore e tradizionale ma non radicale, attento alle classi sociali deboli. La Fratellanza musulmana mira ad una “islamizzazione che parte dal basso“, su base popolare, attraverso l’educazione, la propaganda negli strati sociali e rifiuta la lotta armata».

 Hassan al Banna, fondatore dell’Ikhwan, è certo ancora molto importante per i membri della Fratellanza ma decenni di evoluzione della dottrina ne hanno limato intransigenze e anacronismi. C’è stata una modernizzazione necessaria. L’organizzazione rimane un movimento islamico fedele alla tradizione ma attento ai cambiamenti epocali: dogmatismo religioso unito al pragmatismo e alla flessibiltà. Ha mantenuto il sistema socio-economico che sta alla sua base, mirato a fornire una risposta reale alla fascia delle aeree degradate con servizi sanitari e di educazione. La Fratellanza in Egitto ha infatti da sempre sostituito uno stato sociale inesistente. Per farlo si è servito anche delle Moschee, che sono diventate così uno strumento di diffusione delle idee religiose e politiche. Ora al passa parola attraverso la moschea si aggiunto quello on line. Con una strategia comunicativa proliferata sul web 2.0, una maggiore attenzione alla propria immagine. Un linguaggio più vicino ai giovani. Pur non tradendo il caposaldo dell’importanza della Sharia (la legge islamica).

Un altro mito da sfatare: la credenza diffusa che i rapporti fra Washington e la Fratellanza egiziana, siano nati da poco, sull’onda delle ‘primavere arabe’. Invece, senza contare che l’Organizzazione era già presente negli Stati Uniti dagli anni Cinquanta, è necessario ricordare che tutte le amministrazioni Usa, anche quelle di Bush hanno sostenuto i regimi al potere negli Stati arabi senza mai tagliare i ponti con i Fratelli. Sempre Paola Caridi cita uno dei tanti cablogrammi resi pubblici da Wikileaks.  E’ del 2006 e arriva dall’Ambasciata del Cairo«Il regime di Mubarak», dice il cablo «ha una lunga storia di far aleggiare davanti a noi, la minaccia dell’uomo nero-Fratellanza Musulmana. O me o un regime islamista, magari simile all’Iran khomeinista. O me oppure il caos. O gli affari con me, oppure scordatevi l’Egitto». 

In realtà gli Stati Uniti si sono trovati impreparati alla svolta rapida in Egitto. E lo ha dimostrato il Presidente  Barak Obama indeciso fino all’ultimo se sostenere la Rivoluzione egiziana in nome  dei valori universali americani della libertà o continuare ad appoggiare Mubarak. Ma con la Fratellanza al potere, Obama ha dovuto per forza stringere un patto di alleanza per proteggere Israele. In questi ultimi tempi, la luna di miele sembra raffreddata. Obama è preoccupato per la tensione sociale che non si allenta e che non sembra garantire una stabilizzazione del Paese.  Diffida della Fratellanza ma non può farne a meno. Almeno per ora.

Antonella Appiano per L’Indro Chi Sono i Fratelli Musulmani (riproducibile citando la fonte)

Vedi anche:

 

EGYPT CAIRO ELECTION MORSI CELEBRATION

Egitto, il punto della situazione

Le difficoltà e le contraddizioni del Paese

EGYPT CAIRO ELECTION MORSI CELEBRATION

Il Cairo – Intervista a Reda Fahmy, deputato al senato del Partito Libertà e Giustizia

Molti accusano il Partito Libertà e Giustizia (PLJ) di essere solo un canale ufficiale attraverso il quale la confraternita dei Fratelli musulmani esercita la sua politica.

Deputato Reda FahmiOgni partito ha una base di appoggio. Di sostegno” risponde Reda Fahmy, deputato al Senato del Partito Libertà e Giustizia. È a capo dell’Assemblea degli Affari Esteri, una laurea in scienze politiche. Ci fa l’esempio del “Partito dei lavoratori in Polonia, nato dal Sindacato Solidarność (Sindacato Autonomo dei Lavoratori “Solidarietà” ndr) che, riconosciuto ufficialmente nel 1989, partecipò alle elezioni politiche e vinse. 

Libertà e Giustizia si occupa delle decisioni politiche ma la forza del Partito viene dalla Confraternita dei Fratelli Musulmani. Sbaglia però chi teme che un partito d’ispirazione religiosa come il nostro miri all’instaurazione di una Repubblica islamica stile Iran. L’Iran è uno stato Teocratico. C’è una grande differenza. 

Il nostro obiettivo è quello di raccogliere tutti gli egiziani sotto uno Stato Unito.Facciamo riferimento all’Islam in quanto religione, certo, e l’Islam è il nostro riferimento culturale e identitario, ma abbiamo come priorità le questioni nazionali. E non ci rivolgiamo solo ai Fratelli Musulmani e neppure soltanto ai musulmani.Fra l’altro molti dimenticano che l’intellettuale Rafiq Habib, uno dei fondatori del partito, è un cristiano copto. E che a capo dei Ministeri dell’Interno, degli Affari Esteri e della Difesa, non ci sono rappresentanti del partito Libertà e Giustizia”.

Il successo dei Fratelli musulmani in Egitto (l’organizzazione fondata nel 1928 da Hasan al- Banna) è dovuto a un insieme di fattori sociali, ideologici e politici. E secondo molti analisti, oggi il movimento ha subito una trasformazione per adeguarsi ai tempi, diventando pragmatico. E flessibile.
Conservatore nei costumi ma attento alle richieste dei giovani che non sono disposte ad accettare visioni ristrette. Insomma valori coranici ma anche modernità: social media e tv satellitare.
La strategia della comunicazione è cambiata in parte, pur poggiando in fondo sempre sul concetto di ‘rete’. Ikhwanweb.com è il sito ufficiale dei Fratelli (Ikhwan) ma sono stati creati anche diversi canali Fb come per esempio www.facebook.com/Ikhwanweb.official o Twitter come@ikhwan.

Anche il partito Libertà e Giustizia è presente sul Web 2.0, su Fb, Twitter, Youtube. Il presidente Morsi twitta attraverso il suo account @MuhammadMorsi. E attraverso la rete la Fratellanza cerca di trasmettere l’idea espressa dal deputato. Non nega la tradizione ma non vuole essere identificata come fautrice di uno stato islamico incompatibile con la democrazia.

Continua la lettura su L’Indro:  Egitto, il punto della situazione
Antonella Appiano, per l’Indro. Riproducibile citando la fonte


Vedi anche:

Opinione pubblica divisa in Egitto – Attese, speranze e delusioni

Piazza Tahrie 14 marzo 2013Il Cairo Due giovani “reduci” di piazza Tahir scrivono nel gennaio del 2012, due pièces teatrali sul tema della Rivoluzione. Due visioni diverse, anzi opposte, che sintetizzano gli umori dell’Egitto in questo momento. Un Paese dove l’opinione pubblica è divisa e l’aria che si respira è un misto di gorgoglio rivoluzionario, attesa, delusione.

Muhammad Kamal el din Abo Alela è l’autore di “Ero in Italia”, la commedia rappresentata martedì all’Istituto di Cultura italiana . Ha 21 anni ed è studente di Lettere al Dipartimento di Italianistica della Cairo University. Racconta: “Ho preso parte alle manifestazioni contro Mubarak come indipendente poi mi sono unito ai Giovani Fratelli Musulmani”. Attivo politicamente, Muhammad non ha dubbi: “Dobbiamo avere pazienza. Un cambio di governo non risolve di colpo i problemi di un Paese, il processo avviene per gradi”. E cita l’esempio della Rivoluzione Francese. “Il Presidente Morsi e i Fratelli Musulmani hanno ereditato una situazione difficile: un apparato statale corrotto, l’economia in crisi, uno stato di sicurezza fragile. Bisogna anche tener conto dell’inesperienza perché la Fratellanza è sempre stata all’Opposizione, perseguitata da ogni regime. Esiste infine un problema di comunicazione, credo. Però sono sicuro che il Presidente stia lavorando a grandi progetti che richiedono tempo. Le nuove proteste? È naturale che dopo anni di dittatura, la gente abbia voglia di esprimersi liberamente, di criticare. L’economia è a terra: disoccupazione e povertà alimentano il malessere sociale, ma sarebbe utopistico pensare che le casse dello Stato si possano riempire da sole e di colpo, per magia”. Continua la lettura su L’Indro http://www.lindro.it/politica/2013-03-14/74701-opinione-pubblica-divisa-in-egitto

Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro- riproducibile citando la fonte

Leggi anche:

Il punto della situazione in Giordania

Giordania

I risultati delle elezioni di mercoledi scorso (24 gennaio) erano scontati e non hanno prodotto nessun cambiamento. Affluenza alle urne intorno al 56% e vittoria dei candidati filo-governativi che hanno conquistato la maggioranza in Parlamento. I problemi però in Giordania rimangono. Malcontento popolare per le mancate riforme sociali; livello di corruzione in aumento;crisi economica aggravata dalla presenza di oltre 200 mila profughi siriani.

Le elezioni sono state boicottate dal Fronte Islamico d’Azione, braccio politico dei Fratelli Musulmani, come nel 2010. Ma la Fratellanza, in fondo, ha interesse a mantenere la Monarchia al potere. Nel Regno hascemita infatti la maggioranza della popolazione è di origine palestinese. E se Abdallah dovesse cadere, Israele potrebbe portare a buon fine un progetto che ha cuore da tempo. Proporre la riva orientale del fiume Giordano come patria ‘naturale’ dei palestinesi e giustificare così l’annessione della Cisgiordania. Un modo per risolvere il problema “dei due Stati”, che, ormai si è capito, non vuole affrontare.

Re Abdallah sembrava aver superato brillantemente la tempesta delle Primavere, nonostante le manifestazioni del 2011 e quelle più recenti. “Promesse non mantenute” mi aveva scritto Hamza, taxista di origini palestinesi, da Amman. “Qualche apertura ma in sostanza il sistema rimane lo stesso. Dalle elezioni non mi aspetto nulla. Conosciamo bene i problemi della Giordania e non ho visto veri interventi. La corruzione anzi è in aumento. I prezzi sono aumentati. E il re aveva promesso nuovi leggi e un sistema giudiziario più libero e indipendente”Hamza, quando mi trovavo ad Amman e davanti agli innumerevoli ritratti del re dicevo ridendo che “non era molto avvenente” mi zittiva sempre preoccupato. “E’ pericoloso criticare il sovrano”. Non ha partecipato alle rivolte ma ora è uno dei tanti giovani disoccupati (circa il 40%) in un Paese dove il 60% della popolazione ha meno di 30 anni.

La Giordania non possiede petrolio (lo importa soprattutto dll’Iraq). Una terra arida, che era riuscita a sviluppare un discreto turismo, ora messo però alla prova dall’instabilità dell’area. La Siria in preda a una violenta guerra civile viene vista come un propagatore di ‘virus’ e sforna ogni giorno profughi, che vanno a pesare su un economia in crisi in un paese in piena crisi di identità. Un altro problema: i jihadisti giordani che vanno ad unirsi alle forze anti- Assad in Siria.

Nonostante l’immagine glamour costruita attorno alla Regina Rania, la Giordania questa volta potrebbe essere contagiata dai mutamenti regionali. Abdallah II intanto è stato costretto a chiedere un alto prestito al Fondo Monetario: 2 miliardi di dollari.

Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro Il punto della situazione in Giordania (riproducibile citando la fonte)