Fronte al Nusra

Siria: un film intitolato il paese del Male

Bastano immagini isolate a comprendere una narrazione?

Un film non può essere capito se non si guarda dall’inizio. Ma sembra che ora  tutti  giudichino la Siria dal fotogramma del giorno. Senza considerare la storia, prima delle rivolte e durante le rivolte stesse. Senza considerarne la complessità  e lo svolgimento. Manca un narrativa, un filo conduttore.  Questo è un momento di cambiamento, di transizione. Non si può prendere visione da un punto di questa pellicola ad alta tensione e drammaticità e dolore,  e andare avanti, come se non ci fosse un passato, e intitolarlo il Paese del Male. Perché si genera confusione e si alimentano paure e diffidenze.

La Siria è un Paese sfinito dalla sofferenza, dove la guerra – in quasi tre anni – ha causato la morte di 126mila persone, più di 6mila bambini e la fuga di due milioni e mezzo di persone. I bambini siriani, una intera generazione perduta . Secondo l’Unicef, dall’inverno scorso, il numero di minori che hanno bisogno di assistenza umanitaria in Siria è quadruplicato. I piccoli in situazione di vulnerabilità all’interno del Paese in guerra sono infatti 4,3 milioni contro 1,15 milioni del dicembre dell’anno scorso

Così uno spettatore o un lettore disattento, vedendo i due principali  fotogrammi di oggi che cosa registrerà? Immagine uno: Damasco, un attentatore kamikaze  si è fatto saltare in aria davanti ad un ufficio del ministero della Difesa – nel centro della capitale –  nella zona di Jisr al-Abyad.  E penserà: ecco i ribelli siriani  sono tutti terroristi. O peggio, come ormai  sento ripetere  spesso, i musulmani sono portati a diventare terroristi.

Stessa reazione per  l’immagine due. Maaloula, villaggio simbolo della cristianità in Siria, poco distante da Damasco, dove il rapimento di dodici suore  – da attribuirsi quasi certamente  al gruppo di Fronte Al – Nusra, legato ad  Al Qaeda –  rafforza un’altra affermazione. In Siria i cristiani (la minoranza cristiana è di  circa 1,8 milioni di anime) sono attaccati dai musulmani.

Sono immagini vere e terribili ma se strappate da un contesto più ampio possono risultare fuorvianti.  Perché i gruppi jihadisti non rappresentano l’Islam, ma una devianza. Perché nessuno mette in dubbio il radicalismo di un messaggio come quello propugnato da al-Qaeda, ma è anche vero che non tutti i jihadisti sono al-Qaeda. Allo stesso tempo è vero che il jihadismo miete vittime. Però la maggior parte di queste, sono musulmani. E in molti sembrano ancora oggi dimenticarlo o non saperlo. Perché  in Siria, i gruppi jihadisti, legati  o meno ad Qaida,  ci sono certo,  ma non sono la maggioranza, anche se  forti sul terreno da un punto di vista militare. Che i cristiani abbiano sempre avuto paura degli “islamisti”,  fin dall’inizio delle rivolte, è una realtà. Le testimonianze raccolte già nel 2011, esprimevano un grande timore. E la comunità cristiana, di massima, si era alleata con la leadership di Damasco.  Comprese le gerarchie.

Testimonianze che ho raccolto e raccontato, perché esprimevano sentimenti veri. Ma con passare dei mesi qualcuno mi domandava: «Sarà vero o stiamo cadendo nella trappola della propaganda del regime?». Che da sempre, in Sira, si è posto come difensore delle minoranze religiose ed etniche in Siria.

Le divisioni settarie, intendiamoci si sono delineate, prima  ancora che i gruppi jihadisti pagati dai Paesi del Golfo e favoriti dalla Turchia entrassero nel Paese. Certo perché sempre in situazioni di pericolo le comunità tendono a fare fronte comune. Ma quanto c’era di “religioso” in senso stretto?  La vera divisione non è stata, almeno al principio, fra i sostenitori e gli oppositori al regime? Cristiani, sunniti, sciiti che fossero?

Fin dall’inizio delle rivolte, il presidente Bashar al -Assad chiamò i ribelli “terroristi”. Ma sono scesa in piazza con siriani che non erano terroristi né stranieri e che manifestavano chiedendo solo, diritti, dignità e libertà. In seguito è arrivata la lotta armata, sono arrivate le  ingerenze straniere, sono arrivati davvero i terroristi. Sento ancora le esplosioni continue, che magari creavano pochi danni e non venivano neppure riprese dalla stampa internazionale, a Damasco, nel luglio 2012.  Sono arrivate le lacerazioni fra le Brigate dell’Esercito Siriano libero. Gli attacchi dei gruppi jihadisti contro lo stesso esercito siriano libero. Contro i curdi. Non solo i cristiani sono vessati da queste frange estremistiche. Testimonianze di famiglie sunnite al nord della Siria, nelle zone controllate  appunto  da gruppi che applicano una brutale legge shariatica , rivelano l’insofferenza della popolazione contro chi, forse, era stato visto come il salvatore. Una cosa è certa. Non sapremo come andrà a finire questo drammatico film. Ma almeno non giudichiamo da fotogrammi senza montaggio.

Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro Un film intitolato il Paese del male (riproducibile citando la fonte)

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Un film non può essere capito se non si guarda dall’inizio. Ma sembra che ora  tutti  giudichino la Siria dal fotogramma del giorno. Senza considerare la storia, prima delle rivolte e durante le rivolte stesse. Senza considerarne la complessità  e lo svolgimento. Manca un narrativa, un filo conduttore.  Questo è un momento di cambiamento, di transizione. Non si può prendere visione da un punto di questa pellicola ad alta tensione e drammaticità e dolore,  e andare avanti, come se non ci fosse un passato, e intitolarlo il Paese del Male. Perché si genera confusione e si alimentano paure e diffidenze.

La Siria è un Paese sfinito dalla sofferenza, dove la guerra – in quasi tre anni – ha causato la morte di 126mila persone, più di 6mila bambini e la fuga di due milioni e mezzo di persone. I bambini siriani, una intera generazione perduta . Secondo l’Unicef, dall’inverno scorso, il numero di minori che hanno bisogno di assistenza umanitaria in Siria è quadruplicato. I piccoli in situazione di vulnerabilità all’interno del Paese in guerra sono infatti 4,3 milioni contro 1,15 milioni del dicembre dell’anno scorso

Così uno spettatore o un lettore disattento, vedendo i due principali  fotogrammi di oggi che cosa registrerà? Immagine uno: Damasco, un attentatore kamikaze  si è fatto saltare in aria davanti ad un ufficio del ministero della Difesa – nel centro della capitale –  nella zona di Jisr al-Abyad.  E penserà: ecco i ribelli siriani  sono tutti terroristi. O peggio, come ormai  sento ripetere  spesso, i musulmani sono portati a diventare terroristi.

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Israele ha attaccato la Siria o Hezbollah?

Fra dichiarazioni e smentite, anche sull’uso delle armi chimiche da parte dei ribelli, sale la tensione nell’area. E nascono nuovi interrogativi.

Certo la dichiarazione che Carla del Ponte – già procuratore del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia e membro della Commissione Onu che indaga sui crimini di guerra in Siria –  ha rilasciato domenica scorsa (5 maggio) alla RadioTelevisione Svizzera è stata eclatante: «Stando alle testimonianze che abbiamo raccolto fino ad ora sono state utilizzate armi chimiche, in particolare gas nervino, ma dagli oppositori, dai ribelli». E ha concluso: «In conflitti come quello siriano, non ci sono buoni e cattivi. Per me sono tutti cattivi perché tutti, sia una parte sia l’altra, commettono crimini».

Una dichiarazione forte e inaspettata per i Paesi occidentali che sostengono l’opposizione siriana, pronti a intervenire  militarmente nel caso in cui il regime usasse le armi chimiche. La tesi di Carla del Ponte però è stata smorzata ieri sera (6 maggio) da una nota della stessa Commissione Onu  in cui  si sottolinea «che non sono state  raccolte prove conclusive sull’uso di armi chimiche in Siria dalle parti coinvolte nel conflitto».

Da dicembre scorso il regime e gli oppositori si accusano a vicenda sull’uso di armi non convenzionali. Le prove si troveranno prima o poi? Se non avessimo  a che fare con una delle guerre più crudeli e sanguinose, sembrerebbe tutto una farsa. «Armi chimiche sì, armi chimiche no. Abbiamo le prove. Non le abbiamo. Sono solo sospetti». E se le armi chimiche  sono in mano agli oppositori, di quali oppositori stiamo parlando? Quale fazione armate fra le tante milizie che ormai combattono sul terreno?  Siriani dell’esercito libero o jihadisti stranieri e  salafiti o il potente Fronte al -Nusra?

Intanto Israele compie due raid in territorio siriano nel week-end (precisamente nella notte tra giovedì 2 e venerdì 3 maggio, e poi nella notte fra sabato 4 e domenica 5 maggio). Silenzio stampa di Tel Aviv, come sempre. Il governo israeliano  infatti non ha confermato gli attacchi, anche se – secondo fonti militari – l’obiettivo sarebbe stato un  arsenale di missili iraniani destinate alle milizie libanesi di Hezbollah.

Per Damasco si è trattato invece di un attacco contro il centro di ricerche militari di Jamraya, vicino Damasco, già preso di mira nel gennaio scorso. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, nel raid sono morti 42 soldati governativi. Il ministro  degli esteri siriano ha  dichiarato su Sana – l’agenzia di stato ufficiale – che «l’attacco di Israele rappresenta un’alleanza tra terroristi islamici e Israele».

Il raid, ha aggiunto il ministro dell’Informazione siriano Omran al-Zoubi «apre le porte a qualsiasi possibilità».  Le autorità militari israeliane hanno predisposto  la chiusura dello spazio aereo civile a nord, più per timore di una rappresaglia delle milizie sciite libanesi di Hezbollah, alleate degli Assad, che delle minacce del Regime di Damasco. Appare infatti improbabile che in un momento in cui il regime è impegnato sul territorio in una lotta per la sua stessa sopravvivenza, sia in grado di aprire un altro fronte. Soprattutto contro un esercito così forte come quello israeliano.

Anche gli Stati Uniti, come Israele, non hanno rilasciato dichiarazioni ufficiali sull’accaduto. Ma sembra poco credibile che le autorità statunitensi non fossero al corrente dell’operazione. Un raid che, mentre la guerra civile prosegue violenta in Siria e l’Occidente non sa che decisioni prendere, potrebbe fare comodo a molti. Per indebolire Hezbollah e quindi anche l’Iran. Attraverso l’emittente di stato Press Tv, l’Iran ha criticato  gli attacchi di Israele contro la Siria e ha esortato  «i paesi della regione a levarsi contro le aggressioni israeliane» mentre attraverso  Al-Manar, il canale televisivo di  Hezbollah, il “Partito di Dio” ha descritto l’attacco come la prova del collegamento tra «l’entità sionista e i mercenari estremisti che combattono il regime siriano».

La Turchia condanna Israele  e la Russia esprime preoccupazioni per il Libano. «Stiamo esaminando e analizzando tutte le circostanze relative alle relazioni del 3 maggio e del 5 maggio, quando si sono verificati gli attacchi aerei israeliani», ha dichiarato il ministero degli Esteri russo in una nota, nella quale si precisa che i raid di Tel Aviv minacciano la stabilità del vicino Libano.

E il grande game si complica con dichiarazioni non avvalorate da fonti secondo le quali Israele avrebbe mandato un messaggio segreto a Bashar al Assad, garantendogli appunto di non voler intervenire nel conflitto. Il “nemico” di Israele a quanto pare, è il “Partito di Dio”. Stiamo per assistere a un nuovo conflitto fra Tel Aviv e Hezbollah?

Antonella Appiano per L’Indro Israele ha attaccato la Siria o Hezbollah? – (riproducibile citando la fonte)

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Quartiere 6 Ottobre Il Cairo Bandiere

Little Siria al Cairo

Nella Città del 6 ottobre sventolano le bandiere nere di Jabbat al-Nusra insieme alla nuova bandiera siriana.

Quartiere 6 Ottobre Il Cairo Bandiere(Il Cairo):  “Non c’importa se sono jihadisti” dice Mohammad, indicando le bandiere nere che sventolano nelle bancarelle e in qualche caffè “basta che ci aiutino a cacciare Bashar al-Assad”.

Le bandiere sono quelle di Fronte al Nusra (Jabbat al- Nusra, Fronte della Vittoria) il gruppo militante jihadista che si è costituito in Siria nel gennaio del 2012. Senza dubbio il più efficace braccio armato delle forze di opposizione, che ha già rivendicato 43 attacchi suicidi e conquistato molte postazioni militari. E secondo il Dipartimento di Stato Usa è affiliato ad Al Qa’ida in Iraq.

Mohammad però afferma che, secondo i suoi informatori – amici e parenti- di Aleppo, Jabhat al Nusra, al nord non è visto così male dai siriani”. Anche secondo Firas (che ora vive al Cairo) “i sentimenti dei siriani in patria, si sono a poco a poco trasformati: da timore a rispetto”. Timore certo perché “l’islam radicale non appartiene al nostro popolo” ma rispetto perché “ i combattenti della formazione sono i più preparati nei combattimenti e i più corretti in città nei confronti dei cittadini”. Secondo Firas, il Fronte al Nusra controlla anche i rifornimenti dei forni del pane con giustizia mentre, “per mesi alcune frange dell’Esercito libero avevano imposto prezzi esagerati sulla farina per rifornirsi di denaro. Come sempre, nelle guerre c’è chi s’infiltra. Ed è successo anche nelle file dell’ ESL. Una minoranza, ma hanno rubato, rapinato, rapito gente, saccheggiato”. Insomma sembra che invece il Fronte abbia guadagnato consensi. Ma non tutti i siriani espatriati che ho intervistato, concordano su questo punto. Molti ne diffidano.

Mohammad, Firas, Abu Omar, Anas… sono nomi di fantasia. Mi hanno chiesto di non scrivere i nomi reali e di non essere fotografati perché hanno ancora parenti in Siria. Tante storie. E tutti, dopo un primo momento di diffidenza (ma l’amico siriano che mi accompagna li rassicura) vogliono raccontare. Entrano nel negozietto di alimentari dov’era fissato l’incontro, curiosi, si siedono, incominciano a parlare. Discutono, a volte non sono d’accordo.
Non sono profughi e neppure rifugiati politici. Appartengono alla middle-class e sono riuscii a portar via dalla Siria un piccolo capitale per avviare attività commerciali in Egitto. Arrivano da Damasco, da paesi vicino alla capitale, da Homs. “Ho corrotto gli shabbia che controllano l’aeroporto di Damasco e sono uscito dal Paese con la famiglia 5 mesi fa“, racconta Abu Omar, proprietario del negozio. Indossa una jellabia grigia e fuma il narghilè per tutto il tempo, alternandolo a numerose tazze di thé. “Siamo di Qalamoun, un’area periferica di Damasco. Allevavo e vendevo falchi per i clienti del Golfo. La nostra zona non è stata teatro di scontri ma non c’era più lavoro e la situazione diventava ogni giorno più pericolosa”.
Anas, anche lui di Qalamoun, 35 anni e due figli piccoli, temeva di esser richiamato come riservista. Aveva un negozio di elettrodomestici, ora fa il fruttivendolo.

Khaled, 18 anni, è invece di Homs. È in Egitto da 6 mesi: “I miei genitori hanno deciso di partire perché sarei stato richiamato per il servizio militare. Abbiamo attraversato il confine con il Libano e poi raggiunto il Cairo” racconta. È arrabbiato. “Molti miei amici militano nell’Esercito Siriano Libero. Io vorrei raggiungerli però mio padre mi ha preso il passaporto. Che cosa ci faccio qui? Avevo interrotto gli studi a Homs e lavoravo come elettricista nella piccola impresa familiare. Vorrei tornare in Siria e combattere”.
Mohammad invece è di Damasco, trentenne, insegnava arabo agli stranieri. “Quando sono spariti dalla Siria, ho incominciato a lavorare utilizzando Skype. Ma la connessione non era stabile. Potrei definirmi un profugo di Skype” ironizza. Dopo molte traversie in Turchia, Mohammad, ha deciso di venire in Egitto. È uscito dalla Siria nell’autunno del 2011.

Tutti provano riconoscenza per il Paese che li ospita e nostalgia della Siria dove sperano di ritornare come ‘vincitori’.Ora il potere spetta ai sunniti” ripetono tutti. “Siamo consapevoli del fatto che questa guerra durerà molto tempo – sottolinea Abu Omar – e che, quando cadrà Bashar al-Assad, la guerra sarà ancora più crudele. Ormai la nostra guerra è diventata la guerra di tutti. Aspetteremo”.
Quando chiedo che cosa pensano possa succedere, nello scenario post-Assad, si scherniscono. “Non lo sappiamo, preghiamo per la Siria”.

Sono grati a questo governo e al Presidente Morsi: Con Mubarak non sarebbe stato possibile stabilirci qui. Nessun problema con i documenti, pochi controlli. Le autorità sono tolleranti” afferma Anas. Sperano che le manifestazioni “cessino e che l’Egitto trovi stabilità“. E sono convinti che “se Morsi ha vinto Morsi deve governare”.

Il fratello maggiore di Anas mi spiega che la comunità siriana in Egitto è molto unita. “Abbiamo creato anche scuole nostre. I siriani più ricchi mandano invece i figli nelle scuole private egiziane, dove è sufficiente presentare i documenti d’identità e un attestato scolastico”. Mohammad, che ora vive al Cairo, “in un quartiere dove tutti ormai mi chiamano Usthad, ‘il professore’”, mi spiega che nella Città del 6 ottobre ci sono anche quartieri, come il numero Sei, dove abitano siriani poveri. “Vivono per lo più di carità”.

Facciamo un giro del quartiere. Ovunque insegne che richiamano alla Siria. A Damasco. Ristoranti, caffè, bancarelle che espongono bandiere, bracciali con la scritta: “Siria libera”. Forni che vendono la focaccia tipica, con il timo, il ‘saj’, banchetti con pile di sottoaceti, profumo di felafel ovunque. “Che noi siriani facciamo con i ceci e non con le fave” precisa Mohammad “e sono migliori”. Il proprietario di un ristorante, sulla soglia, ha dipinto il ritratto di Bashar al-Assad e del padre “così tutti quelli che entrano li calpestano” mi dice sorridendoIn un angolo del locale, una bandiera nera del Fronte al Nusra.

Intanto in Siria non si smette di combattere: ieri una bomba sulla città di Aleppo ha provocato 15 vittime, in gran parte bambini, come riferito dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, e c’è grande apprensione per Amedeo RicucciElio ColavolpeAndrea Vignali e Susan Dabbous, giornalisti fermati in Siria, irraggiungibili dal 4 aprile, ma che secondo la Farnesina stanno bene e presto saranno liberi, ndr.

In esclusiva per Lindro, riproducibile citando la fonte.
per L’Indro:  Little Siria al Cairo


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A Damasco

Damasco Marzo 2011
Sono a Damasco da due giorni. Ho trovato la città più bella che mai. Sono stupita ogni volta dal suo fascino. La sento la mia città di elezione. Il mio sogno? Vivere qui, lavorare qui, comprare una piccola casa araba nella città vecchia.  Gli amici damasceni mi prendono in giro e citano un vecchio proverbio siriano che recita: “Se vivi sette anni a Damasco, la città vivrà in te“.

Clandestina a DamascoSul taxi per andare al centro commerciale di Sham City Center, incrocio autobus strapieni di siriani: donne con l’abaya, ragazze con l’hijab e altre con i capelli al vento, uomini con la tunica bianca e altri vestiti all’occidentale. Kefiaat e cappellini da baseball con scritte fosforescenti…(…) Incomincio a lavorare. Voglio fare ricerche sul delitto d’onore, sul problema dei matrimoni a tempo, sulla tratta delle irachene. Ho scritto mail a tutti i miei contatti, non mi resta che aspetttare. Dimenticare la fretta occidentale e adeguarmi al ritmo lento di Damasco. Qui il tempo ha una valenza diversa.
( da Clandestina a Damasco- Un Paese sull’orlo della guerra civile, Castelvecchi RX, in libreria e su : Amazon, IBS, La Feltrinelli, Castelvecchi)

 …...questo accadeva due anni fa. Ero riuscita ad organizzare un giro per il Paese con le volontarie dell’Osservatorio sulle Donne Siriane ma dopo il 15 di marzo gli eventi prendono una piega diversa…Rimarrò in Siria, “sotto copertura” per 4 mesi.  E riuscirò a tornarci con un visto regolare solo nel maggio del 2012 e ancora a luglio e agosto. Questi i miei primi articoli scritti per il quotidiano on line Lettera 43.

Ombre nere sulla città L’atmosfera è cambiata – 29 Marzo 2011 -Lettera43
Siria, le bugie dell’Occidente – 03 Aprile 2011 – Lettera43
Infiltrati negli scontri – 16 Aprile 2011 – Lettera43
L’eco delle morti di Daraa – 09 Aprile 2011 – Lettera43
«A Bashar non c’è alternativa» – 31 Marzo 2011 – Lettera43
Il venerdì fa paura ai siriani – 07 Aprile 2011 – Lettera43

Oggi dopo due anni, possiamo dire che la Siria come stato unitario non esiste più. Settantamila (secondo le fonti Onu), centinaia di migliaia di profughi e una guerra civile che continuerà anche se cadesse il Presidente Bashar-al Assad. Una parte del Paese è ancora sotto il controllo del regime, l’altra dall’oppsizione armata, divisa in varie sigle. Dall’ESL (esercito siriano libero) al Fronte al Nusra, il gruppo miitante jihadista che si è formato nel gennaio del 2012, a quello dei Volontari libici e altri ancora. La guerra è una guerra a due piani, come scrissi ad agosto 2012, da Aleppo. Una fra il regime e gli oppositori siriani e una “internazionale” perché ormai in Siria sono coinvolte da tempo potenze mondiali e regionali: Russia, Usa, Francia, Gran Bretagna, Turchia, Qatar, Arabia Saudita, Iran.

Una partita sullo scacchiere del Medio Oriente che potrebbe svilupparsi con risvolti gravi per tutta l’area. E non solo. Giocata purtroppo sulla pelle dei siriani.

Antonella Appiano


Siria, un rebus non risolvibile?

Incontro degli Amici della Siria a Roma fra accuse e minacce di boicottaggio ritirate. Il banco di prova per l’agenda mediorientale del nuovo Segretario di Stato americano John Kerry in una regione a rischio di “alta destabiizzazione”

Secondo lo scrittore libanese, Amin Maalouf , in Francia dal 1976,  e in uscita con  il romanzo “I disorientati”, nel mondo arabo potrebbe scoppiare ”una seconda rivoluzione che chieda una vera modernizzazione sociale. Un processo molto lungo e, in alcuni paesi molto violento. Come in Siria, dove – se la situazione continua a peggiorare – ci saranno ricadute pesanti sul Libano”. Gli effetti della destabilizzazione regionale veramente sono già visibili in Libano e  potrebbero estendersi anche ad altri stati confinanti, la Giordania, l’Iraq, la Turchia. Caso sempre più scottante quello della Siria. Mentre il Paese è in preda alla guerra civile e devastato da attentati a catena,l’opposizione, con a capo Moaz al Khatib, aveva dichiarato di voler boicottare la riunione  degli “Amici della Siria”, in programma  a Roma giovedì 28, incolpando l’Occidente e gli Usa di non fare nulla di concreto per far cadere il regime di Bashar al- Assad. Ma L’Opposizione ha cambiato idea dopo le richieste del nuovo Segretario di Stato americano John Kerry.

Un’opposizione che non sembra avere il controllo sul terreno, dove le operazioni militare sono sostenute soprattutto dai gruppi jihadisti e radicali. Il Fronte al- Nusra dei combattenti islamici  ha già rivendicato una cinquantina, dei sessanta attacchi suicidi con le autobombe, compiuti in Siria nell’ultimo anno. Il gruppo terroristico  presenta modalità e caratteristiche ideologiche simili a quelle di al Qaida in Iraq. Ed è la fazione  più addestrata, più abile e meglio armata fra i combattenti sul terreno. Lo stesso Presidente americano Barack Obama aveva frenato più volte il predecessore di Kerry, l’allora sottosegretario Hillary Clinton, favorevole a rifornire di armi i ribelli.Accuse. Contro-accuse. Il  New York Times, che cita fonti ufficiali americane ed europee, scrive che l’Arabia Saudita, da dicembre scorso, sta consegnando armi ai ribelli, attraverso la Giordania. Armi comprate in Croazia e destinate ai gruppi “laici”  per cercare di tenere sotto controllo i movimenti  jihadisti. Sempre secondo il New York Times, non è chiaro il ruolo svolto dagli Stati uniti in questa operazione. Ma una cosa è certa: com’è possibile controllare la destinazione finale delle armi in un Paese nel caos come la Siria?

Siria: un nodo irrisolto e complesso che ha già causato 70mila morti dall’inizio delle rivolte a fine marzo del 2011. Un rebus che sembra complicarsi ogni giorno che passa e che divide non solo gli Stati uniti ma anche la Comunità internazionale. L’Occidente  e gli States che si sono schierati a favore delle rivolte in Tunisia e in Egitto e hanno appoggiato i Fratelli Musulmani contro gli autocrati -prima alleati degli Stati Uniti-  dovrebbero  comportarsi nello stesso modo in Siria.  Ma “sul piatto” esiste la reale possibilità di una prevalenza dei gruppi più radicali e quindi, di conseguenza, la necessità di difendere Israele.  Gli Stati Uniti cominciano a temere forse che i cambiamenti nei paesi delle Primavere arabe, avranno effetti non controllabili?

Intanto il ministro degli Esteri siriano, Walid  al-Muallem, durante l’incontro in Russia con il ministro russo Sergei Lavrov, ha dichiarato di voler “aprire il dialogo  per porre fine al conflitto con tutte le forze di opposizione al regime di Bashar al-Assad, compresi i gruppi armati“.  Ma è un negoziato fra le parti è un’opzione ancora credibile?

Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro: Siria, un rebus non risolvibile? (riproducibile citando la fonte)
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Nel turbine della storia- Parte II Le primavere arabe del Mashreq e dei Paesi del Golfo

Una infinità di variabili in Medio Oriente

Bahrein Proteste

Abbiamo già scritto quanto sia difficile analizzare eventi ancora in atto. E’ un momento storico in cui nulla è scontato. Terreno friabile, quello delle rivolte dei Paesi arabi. Un fiume in piena che può deviare il corso molte volte ancora. Che ci costringe a continui aggiornamenti e riconsiderazioni. Tentiamo, comunque, di terminare  la sintesi prendendo in considerazione l’area del Mashreq e quella dei Paesi del Golfo.

Mashreq Per ora è la zona regionale  più problematica  a causa della funzione chiave che svolge in geopolitica. Già a rischio prima delleprimavereper il conflitto senza fine fra Israele e i palestinesi e oggi, più che mai, teatro di scontri non risolti.  In Siria è tuttora in corso una violenta guerra civile,  fra l’esercito, le milizie del regime e i gruppi armati dei ribelli, complicata dalla presenza di combattenti stranieri jihadisti e di frange terroristiche come il Fronte Al Nusra. La Siria si sta disgregando, come ha dichiarato l’inviato delle Nazioni Unite, Lakhdar Brahimi, “la guerra sta distruggendo il Paese pezzo dopo pezzo”.  Una guerra per procura, dove i ribelli sono appoggiati dalla Turchia, dai Paesi arabi del Golfo (Arabia Saudita e Qatar) e dai Paesi Occidentali. E il regime del Presidente Bashar-al Assad, sostenuto dalla Russia, può contare invece sull’Iran e gli hezbollah libanesi. Non possiamo prevedere lo scenario futuro, ma certo una transizione è ancora molto lontana. Ricostruire la Siria sarà una operazione lenta, complessa e costosa in termini umani ed economici. Senza contare il rischio-contagio in Libano e  http://www.lindro.it/il-punto-della-situazione-in-giordania/. Finora le primavere arabe hanno spazzato via i regimi cosiddetti laici. Ma se il conflitto dovesse debordare in monarchie come la Giordania, il puzzle mediorientale cambierebbe di nuovo, assumendo forme nuove.

Area Paesi Golfo. Ad eccezione del Bahrein, le Petromonarchie del Golfo si sono salvate dalle rivolte. Con il denaro proveniente dalle rendite petrolifere infatti,  sono riuscite a tacitare lo scontento dei gruppi di opposizione ‘laica’ che chiedevano riforme.  Il meccanismo di questi stati-provvidenza, come scrive Marcella Emilianisi regge sull’assioma no taxation no representation. Gli autocrati possono cioè permettersi di non concedere alcuna rappresentanza politica nella misura in cui non fanno pagare le tasse”. D’altra parte, l’Arabia Saudita, il Qatar e gli altri stati-provvidenza hanno sempre elargito denaro per garantire la stabilità interna.

Bahrein. Proprio oggi (14 febbraio n.d.r)  si  ‘festeggia’  il  secondo anniversario delle proteste contro  la monarchia sunnita di re Hamad al- Khalifa. La popolazione, formata in maggioranza da sciiti (circa il 70%)  discriminati sul piano sociale, politico ed economico, rivendica diritti uguali per tutti e un vero Parlamento. Ma la monarchia continua ad attaccare i manifestanti, forte anche dell’aiuto dei militari dello Scudo della Penisola (forza congiunta dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo) e del silenzio complice dell’Occidente e degli Stati Uniti che, ricordiamo, proprio in Bahrain hanno basato la IV Flotta.
Infine, fa parte geograficamente dei Paesi Golfo ma non è uno stato-provvidenza, lo Yemen, dove si continua a combattere. Uno scontro complesso fra clan, esercito e gruppi di Al Qaida al sud, ed esercito e gruppi sciiti Huti al Nord del Paese. Anche in Yemen, due giorni fa (il 12 febbraio) si è celebrato il secondo anniversario delle rivolte contro l’ex presidente Ali Abdullah Saleh fra scontri nella capitale e nel sud del Paese dove le forze di ordine hanno sparato sulla folla. Durante le manifestazioni i dimostranti hanno chiesto che Saleh venga richiamato in patria e processato.

Dopo l’entusiasmo iniziale di fronte alle rivolte arabe, lo scenario appare senza dubbio instabile anche se sarebbe sbagliato affermare che le “primavere sono sfiorite”. Ci troviamo ancora, come scrisse Ryszard Kapuściński nel “turbine della storia”.

Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro: Le primavere arabe del Mashreq e dei paesi del golfo (riproducibile citando la fonte)

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Islam politico e guerra dei media

L’Egitto e la Tunisia dopo la fine delle autocrazie ’laiche’

Le vittorie dei Fratelli Musulmani e di En-Nahda sono un insuccesso? E intanto in Siria continua la battaglia mediatica.

Proteste e scontri in Egitto e in Tunisia. Scelte sbagliate del presidente Morsi che dopo essere stato ’acclamato’ per la mediazione – conclusa con successo – nelle trattative della tregua tra Israele e Hamas, è contestato dalla Piazza. Certo, una mossa poco saggia quella di reclamare i pieni poteri. E di imporre una nuova costituzione che riprende pesantemente la Shari’a. Gli egiziani hanno già dimostrato di non essere più disposti ad accettare dittature e il Paese sta vivendo una grave crisi economica e sociale. Ma il percorso da una autocrazia a un governo che garantisca ’democrazia’, sia pure declinata secondo l’Islam politico richiede tempo. Passaggi obbligati. Forse è presto per dire che la partita è persa. Anche in Tunisia dove, ricordiamo, dopo la cacciata di Ben Ali, ha vinto un governo di coalizione con a capo il partito religioso En-Nahda (Rinascita), sono ripresi scontri e proteste. Però En-Nahda deve mediare con il gruppo più radicale che fa parte della coalizione. E i compromessi storici, si sa, non sempre hanno successo. Certo il momento è importante: se fallisce anche l’Islam politico che cosa succederà in questi Paesi così vicini all’Italia e all’Europa? L’instabilità è un lusso che non possiamo permetterci.

Intanto non si profila nessuna soluzione per la Siria. Il generale prussiano Otto von Bismark diceva: “Non si mente mai come per una battuta di caccia, una donna o una guerra”Siria e armi chimiche. Quale verità? In questi giorni le dichiarazioni e le smentite riguardo all’arsenale chimico in possesso dalla Siria – e che potrebbero essere usato contro i civili – si rincorrono. La ‘BBC’ (attingendo a fonti del Foreign Office) riporta che la leadership di Damasco è pronta farne uso. Il regime dichiara invece di essere contrario all’uso di armi a base di gas contro la popolazione. Anzi, accusa il gruppo jihadista Fronte al-Nusra di controllare una fabbrica di cloro.

Sul terreno appare ormai chiara l’avanzata degli oppositori armati. Non solo al confine con la Turchia, ma anche intorno a Damasco. Gli Stati Uniti continuano ad esprimere la preoccupazione che le armi finiscano in mani estremiste. Ma questo, in parte, è già avvenuto. In uno scenario post-Assad quindi le incognite sono tante. I vari gruppi – o parte dei gruppi che compongono la resistenza armata – potrebbero continuare a combattere. La nuova coalizione eletta a Doha, è davvero in grado di controllare il territorio? Di far deporre le armi? E si dibatte sul ruolo della Russia. Sta allontanandosi dal regime? Mentre nel nord del Libano, a Tripoli, si acutizzano gli scontri fra fazioni pro e contro Bashar Al-Assad. Fonti libanesi parlano di una quindicina di morti nell’ultima settimana.

Dal web continuano ad arrivare tweet e video di cui è impossibile accertare la fonte. Anche i bambini non sfuggono alla strumentalizzazione. Bambini avvolti da bandiere del regime o dell’esercito siriano libero che guardano in telecamere, recitando slogan. E’ davvero l’immagine più triste.

di Antonella Appiano, in esclusiva per L’Indro: Islam politico e guerra dei media, riproducibile citando la fonte.

 

Il Fronte instabile dei Paesi delle Rivoluzioni

Intervista al Professor Massimo Campanini
Il fronte instabile dei Paesi delle Rivoluzioni
Perché hanno vinto i partiti islamici, il ruolo delle Petromonarchie del Golfo. La presenza di gruppi terroristici nei Paesi in via di trasformazione.
“Iniziare una rivoluzione è difficile, ancora più difficile è continuarla, e difficilissimo è vincerla. Ma sarà solo dopo, quando avremo vinto, che inizieranno le vere difficoltà. Sono le parole che – nel film, ’La battaglia di Algeri’ di Gillo Pontecorvo