Giovani

In Siria: facebook or not facebook?

Ragazze in un wireless cafè a Damasco, Old Town

A Gennaio, durante i “giorni della collera”, il governo aveva chiuso l’accesso. Certo per precauzione. In Egitto, Fb, ha svolto un ruolo importante nell’organizzare la protesta che ha portato alla caduta di Mubarak. Ma dall’8 di febbraio, in Sira, il divieto è stato annullato. Nessuna restrizione. Internet è a disposizione di tutti. In Old Town, gli Internet cafè sono sempre pieni, molti bar mostrano il cartello: free wireless. Ed è possibile navigare sul cellulare. O comperare il modem per casa. Anche se, purtroppo, con le “chiavette” in certe zone della città (come la mia) la connessione è “capricciosa”.

Nessuna restrizione dunque. Neppure dopo le manifestazioni di Dar’aa. E questo mi sembra un buon segnale. Eppure anche qui, sul popolare Social Network, si sono formati gruppi pro-rivolta. Gruppi che avevano annunciato, per il 5 di febbraio, una grande sollevazione popolare a Damasco, dopo la preghiera del venerdì (fra l’altro un’analoga rivolta era stata segnalata per ieri).

Il 5 febbraio non è successo nulla e forse per questo l’accesso è stato riaperto. Un segnale di fiducia nei confronti dei giovani? Un tentativo di raffreddare gli animi? Una prova che davvero il presidente Assad, come ha dichiarato al Wall Street Journal, “ha un buon rapporto con il suo popolo” e non teme dunque Fb? Rami, un assiduo frequentatore dell’Internet cafè, dove vado ogni tanto per leggere la posta più rapidamente, mi ha raccontato che anche durante la chiusura, lui e i suoi amici, non avevano problemi. Utilizzavano infatti un server internazionale per aggirare il divieto. “Anche YouTube è open – ha aggiunto – invece il Forum Blogspot è vietato”. Rami, non crede nella rivoluzione. Spera però che il Governo mantenga le promesse di modernizzazione e di apertura. Soprattutto di attenzione verso i giovani.

“Miral” di Julian Schnabel: una storia di formazione che non trasmette emozioni

Titolo: Miral, regia di Julian Schnabel
Professione: studente
Parola chiave: formazione
Ambientazione: Gerusalemme, Territori Occupati
Genere: drammatico
Trailer:  http://www.comingsoon.it/Film/Scheda/Video/?key=47755|4775&ply=1

Come si fa a crescere, studiare, a mantenere la propria identità culturale, quando si vive in un Paese Occupato? Lo racconta il film Miral – basato sul libro della giornalista palestinese Rula Jebreal – e  presentato alla 67esima Mostra del cinema di Venezia.
Una storia di formazione. Quella della ragazzina Miral che cresce a Gerusalemme Est e, durante l’adolescenza, si trova affrontare la realtà dell’Occupazione, della guerra, della ribellione. Grazie all’amore del padre e all’istruzione ricevuta nell’istituto Al-Tifl al-Arabi, riuscirà a uscire dalla spirale di violenze di un Medio Oriente senza pace e andrà a vivere all’estero appena dopo gli accordi di Oslo del 1993.
Hind Husseini, che aveva fondato il collegio per dare rifugio gli orfani della guerra iniziata nel 1948, accoglie la piccola Miral, dopo il suicidio della madre. E dal primo momento le inculca il valore della cultura: “la differenza fra te e i ragazzi dei campi profughi è proprio l’istruzione”. Ancora Hindi la manda, 17enne,  va a lavorare come insegnante in un campo profughi. E’ il 1987. L’anno della prima Intifada, “la rivolta della pietre”.  E durante le ore passate fuori dall’ambiente protetto della scuola, Miral sperimenta la frustrazione dell’Occupazione, si trova faccia a faccia con la violenza e la repressione. S’innamora dell’attivista attivista Hani, è tentata. Partecipare attivamente alla resistenza o seguire la lezione di vita di “Mama Hind” che continua a ripetere  “istruzione è unica strada per la pace e la libertà”?

Un bel tema, più attuale che mai. Dato che oggi il diritto allo studio in Cisgiordania appare sempre più lontano, messo in serie difficoltà dal Muro di separazione e dai blocchi militari in costante aumento (circa 500 check point) che rendono complicato,  per studenti e professori, raggiungere scuole e Università. Come testimonia con dati e cifre dettagliati, la lettera di un gruppo di docenti italiani particolarmente sensibili alla situazione universitaria e scolastica del popolo palestinese.

Vittorio Sangiorgio, neo presidente Coldiretti «La mia sfida: attrarre giovani che non appartengano per nascita all’agricoltura»

Ventisette anni, occhi verdi e un’aria un po’ scanzonata. Vittorio Sangiorgio, neo Presidente della Coldiretti – Giovani Impresa è, leader dei giovani agricoltori italiani, ha conquistato la carica il 24 marzo scorso. E’ salernitano, crede nell’impresa innovativa e rispettosa dell’ambiente, nella ricerca e nella forza del Made in Italy.
Un testimonial attendibile. Ha modernizzato l’azienda agricola familiare di Pagani, in provincia di Salerno, diversificando l’attività in coltivazione di piante e fiori e fornitura di servizi per congressi e cerimonie. E sfrutta i principi della bioedilizia (coperture verdi con giardini pensili sugli edifici) per migliorare il rendimento termico e quindi il risparmio energetico.

Quali sono i suoi obiettivi principali?
“Intercettare” i giovani e creare una filiera agricola tutta italiana. Il processo di produzione deve svolgersi, dalla fase iniziale a quella finale, esclusivamente in Italia per garantire al consumatore genuinità, sicurezza, territorialità. La nostra forza è il “Made in Italy”, siamo leader nel mondo e dobbiamo batterci per non disperdere questo valore.
E i problemi da affrontare?
Prima di tutto l’agro-pirateria. Durante viaggi-esplorativi ho trovato, per esempio, negli Stati Uniti mozzarelle vendute con un marchio italiano e prodotte invece nel Wisconsin. E’ poi è indispensabile potenziare una cultura d’impresa basata sulla creatività, coinvolgendo anche la ricerca. Solo così riusciremo a sviluppare progetti nuovi, aderenti al presente senza dimenticare il rispetto e magari la riscoperta delle tradizioni.
Qual è stato l’impatto della crisi economica?
La crisi non ha risparmiato nessuna sfera, quindi neppure quella agricola. Però vorrei mettere in risalto, un dato positivo. Durante il 2009, il 78% degli imprenditori ha realizzato investimenti in azienda. C’è fiducia, quindi.

Ferdinando Cornalba: l’azienda creativa fa cow-pooling e mette la webcam in stalla

E’ geologo ma ha scelto gli spazi aperti della sua campagna. «Tra un esame e l’altro mi rilassavo guidando il trattore» ricorda Ferdinando Cornalba . «L’azienda è di famiglia, siamo una ‘dinastia di agricoltori’ però ho deciso di lavorare qui per passione». E insieme al fratello Giuseppe, perito agrario, ha modernizzato la struttura con una serie d’innovazioni creative. Il cow-pooling per esempio, e cioè la possibilità offerta a più famiglie di acquistare anche una mucca intera e di divedersi la carne.

«Una proposta che, in questo momento di crisi sta riscuotendo grande successo perché garantisce nello stesso tempo risparmio e qualità» afferma Ferdinando.
La novità più tecnologica? Una webcam fissa che, tramite collegamento internet, permette ai compratori, di vedere in diretta ciò che avviene nelle stalle. E di controllare quindi i sistemi di allevamento dei capi di bestiame.

L’azienda, che è a Locate Triulzi (Milano), vende direttamente i prodotti che produce già dal 1985. «Pioniere è stata mia madre. Ma anche se ero ragazzo, ricordo la felicità quando ci siamo liberati dalle imposizioni del mediatore. Il prezzo è questo, altrimenti, il riso ve lo vendete da soli. E così abbiamo fatto». Impegno, amore per la terra, dedizione, sicurezza alimentare, sono parole che emergono spesso nel racconto di Ferdinando. Insieme al concetto di studio, ricerca, sostenibilità ambientale, qualità.

Un altro punto di forza dell’azienda (che nel 2009 ha vinto il Premio Oscar Green) è, infatti, la vendita ‘sfusa’ di riso, farro, latte grazie a moderni distributori automatici che permettono così al consumatore di risparmiare sulla confezione.

Come molti giovani imprenditori (Ferdinando si schermisce: «Giovane, insomma: ho 39 anni») con una tradizione ‘contadina’ alle spalle anche i fratelli Cornalba, sono attenti al recupero delle usanze del passato.
«L’azienda un tempo era una piccola comunità di ben 30 famiglie. Si festeggiavano ‘la fine della semina’, la ‘fine del raccolto’. Per non dimenticare un patrimonio che fa parte della nostra cultura, abbiamo pensato di ricreare questi momenti. Una possibilità per chi lo desidera, di uscire per un poco dal ritmo vorticoso quotidiano e riassaporare, insieme al contatto con la natura, lentezza e ritualità».

di Antonella Appiano per IlSole24ore – job24.ilsole24ore.com

La masseria di Nunzia Tinelli : studi al Nord, passione e impresa al Sud

«Ho bisogno di stimoli. Di tenere ‘il cervello in funzione’, in allenamento costante. Invece il lavoro nell’azienda farmaceutica mi costringeva a lasciarlo in un compartimento stagno» racconta Nunzia Tinelli, 27 anni e una laurea in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche presso l’Università di Bari.
Così dopo le esperienze di lavoro in Veneto e ad Ancona, nel campo aziendale della certificazione e della qualità-prodotto, decide di cambiare. E accetta una proposta a Bologna nel ramo dei cosmetici naturali. Un amore a prima vista. «Scopro che quel mondo mi appassiona, ricomincio finalmente a pensare, a progettare. Studio la filiera dell’olio, mi specializzo in gestione aziendale con un’idea ben precisa. Tornare in Puglia e far nascere una impresa agricola nella Masseria di Noci che appartiene alla mia famiglia da 4 generazioni, ma era stata sempre utilizzata come casa di campagna». Un azzardo nato dalla passione? Ride.« Sì, ma non ci credeva nessuno, neppure il commercialista, quando ho aperto la partita I.V.A…».

La difficoltà più grande? «Tornare in Puglia dopo gli anni passati al Nord, stabilire contatti, relazioni, superare la diffidenza nei confronti del cambiamento».
Invece, Nunzia ha vinto la scommessa. Nella Masseria ci sono piante di ulivi secolari e lei è partita dall’inizio della filiera, per produrre olio genuino e saponette artigianali secondo una ricetta del 1945.

Ma la mente di Nunzia, ormai liberata da schemi e costrizioni, continua a elaborare progetti. Come quello di ricavare nella masseria un bed& breakfast. O quello di far conoscere vecchie tradizioni e processi produttivi, attraverso laboratori, corsi, visite guidate, iniziative.
«La “Scuola della pagnotta” se volete imparare a preparare il pane o una buona focaccia. Il programma “Visita al frantoio”- nel mese di novembre – per osservare “dal vivo” il processo di raccolta delle olive fino alla trasformazione nel frantoio. Sono solo due esempi. Tradizione e innovazione. Naturalmente ho un sito-blog, aggiunge la farmacista-agricoltore, così ogni volta che ho un’idea…»

di Antonella Appiano per IlSole24ore – job24.ilsole24ore.com

Dal convegno dei “Musulmani 2G”, le seconde generazioni, com’è lontana la Svizzera dei minareti

Torino, 1-2 dicembre 2009, Convegno Nazionale “Musulmani 2G- Diritti e doveri dei giovani musulmani di seconda generazione”, promosso dal CIPMO (Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente) in collaborazione con l’Associazione Giovani Musulmani italiani, L’istituto di Studi Storici Gaetano Salvemini e l’Associazione FIERI (rete di studi interdisciplinari per lo studio dei fenomeni migratori e l’inclusione delle comunità straniere).
Atmosfera intensa e partecipe nella sala del Circolo dei Lettori del seicentesco Palazzo Granieri della Roccia che ospita il convegno. La presentazione ufficiale davanti a un pubblico eterogeneo: docenti universitari, ricercatori, cittadini partecipi,  giovani donne in hijab…
 Janiki Cingoli, Direttore del CIPMO, pone subito l’accento sullo scopo dei lavori. Analizzare “il tema dei giovani musulmani di seconda generazione da tre punti di vista: la vita quotidiana, gli aspetti giuridici, il confronto tra le diverse esperienze europee”. Secondo le stime ufficiali, oggi, i giovani musulmani in Italia sono 200.000, di cui l’80% è nato nel nostro Paese o vi è arrivato giovanissimo con i genitori. Una realtà composita, dato che le origini dei ragazzi fanno riferimento a circa 50 nazionalità differenti. 
Hanno frequentato le nostre scuole, parlano perfettamente l’italiano, tifano per la Juventus o la Roma. Eppure, al di là delle immagini preconfezionate e i soliti stereotipi, non sappiamo veramente chi sono questi ragazzi. Come vivono? Che cosa studiano? Dove lavorano? Quali sono i problemi che devono affrontare ogni giorno? Lo scopriremo nel corso del Convegno…

“Murad Murad” di Suad Amiry , il lavoro è desiderio anche in Cisgiordania

Suad Amiry, Murad Murad, Feltrinelli
pagg. 176, euro 14,50.

Qual è il desiderio di Murad? In un’area in cui – secondo le statistiche Onu – la disoccupazione riguarda il 35-40 per cento della popolazione e le persone che vivono sotto la soglia della povertà sono fra il 50 e il 60 per cento, il desiderio di Murad, un giovane palestinese, è semplicemente quello di poter lavorare.  Nella Cisgiordania occupata e disseminata di posti di blocco e insediamenti, isolata dal Muro costruito da Israele, i fortunati possessori del “tesserino blu”, sono pochi, circa 20mila. E solo loro hanno l’autorizzazione  per  andare in Israele a lavorare come operai, manovali, braccianti. “I permessi sono stati revocati nel 2002 allo scoppio della seconda Intifada – scrive Suad Amiry – così, nel giro di una notte, 150mila operai hanno perso il posto”. E aggiunge : “data la completa dipendenza economica da Israele, gli smembrati e disconnessi Territori Occupati non avevano e non hanno granché da offrire”.
Oggi, almeno 50mila palestinesi, “non in regola” fra cui Murad, – il giovane protagonista del libro – ogni giorno, di straforo, cercano di entrare in Israele, affrontando sacrifici, disagi, fatiche, pericoli. E non importa se – una volta trovato – il lavoro è malpagato, discriminato e privo di tutela. “ Non posso rimanere seduto al caffè del paese a fumare narghilè e bere the. Non ci sono prospettive nel mio villaggio – racconta Murad- Meglio rischiare. ”
Suad Amiry diventa la confidente dello “sfrontato” Murad, un ragazzo come tanti. Viene a sapere che, pur avendo solo 21 anni, ha lavorato per 7 anni in Israele, parla ebraico, è stato innamorato di una ragazza israeliana. Murad non si rassegna al muro che divide  i due popoli, che gli impedisce di vivere e lavorare in pace. E Suad Amiry, a sua volta, non si accontenta di raccogliere la sua testimonianza. Decide di vivere l’esperienza di Murad e dei “tanti come lui”, in prima persona.