Hamas
La fragilità del Libano
Le sfide nel Paese dei Cedri
LA FRAGILITÀ DEL LIBANO
Fra tensioni non risolte, dinamiche regionali, un governo che si basa sulle componenti religiose, disoccupazione in aumento e i rifugiati palestinesi. E le elezioni si avvicinano.
Mi trovavo a Beirut quando è scoppiato il conflitto Gaza-Israele. E la soglia dell’attenzione per ciò che stava accadendo era molto alta. Nei caffé e nei negozi, i televisori erano sintonizzati sulle emittenti satellitari che trasmettevano immagini e notizie 24 ore su 24. E la gente non parlava d’altro. Che cosa succederà? Israele e Hamas firmeranno la tregua? E se invece scoppiasse una guerra regionale? Se Israele occupasse ancora una volta il sud del Libano? Ora che la tregua è stata raggiunta fra Hamas e Israele, l’esercito di Tel Aviv non ha invaso la Striscia e si è ritirato, chiamo dall’Italia, Samira, avvocato quarantenne di Sidone. Non nasconde il sollievo. Ma è consapevole che se l’accordo non si trasforma in un processo di pace, rimane fragile.
Fragile come il suo Paese, il Libano, che confinando con Israele e la Siria, è infatti dal punto di vista geopolitico, ’a rischio’, esposto a continue tensioni e non solo da oggi. Una entità politica chiamata Libano infatti non era mai esistita prima dello smembramento dell’Impero Ottomano seguito alla Prima guerra mondiale. Fu la Francia a tracciare i confini del nuovo Paese, riunendo in una unico Stato un mix di di confessioni religiose: musulmani sunniti e sciiti, cristiani, drusi. Nel 1926 la Francia permise che il Libano (ancora sotto l’influenza francese) si proclamasse Repubblica e adottasse una Costituzione. Ma proprio questa Costituzione conteneva fattori di pericolosa ambiguità che verranno alla luce presto.
Certo gli abitanti del Paese dei Cedri erano arabi per lingua e cultura, ma l’unità era compromessa dagli interessi economici e dalle diverse alleanze delle varie confessioni. Diciotto per la precisione quelle ufficialmente riconosciute (armeni cattolici, armeni ortodossi, alawuiti, Chiesa assira d’oriente, caldei cattolici,copti, drusi, greco-cattolici, greco ortodossi, ismailiti, ebrei, maroniti, protestanti, cattolici romani, sunniti, sciiti, siro-cattolici, sir-ortodossi ). Nel 1926, la maggioranza dei libanesi, era cristiana, circa il 55% seguita dai musulmani sunniti, dai musulmani sciiti e dai drusi. La costituzione, formalizzata in maniera definitiva nel 1943, prevedeva un assetto istituzionale regolamentato dall’appartenenza religiosa. Il Presidente della repubblica, cristiano (in particolare cristiano maronita); il primo ministro, sunnita, il presidente del Parlamento, sciita.
Con gli anni i rapporti di forza delle componenti cambieranno. Ma il Libano continua a esseregovernato dai gruppi religiosi che devono mediare di continuo fra cittadini e Stato. A questa situazione di instabilità strutturale, vanno poi aggiunti altri eventi: la lunga e cruenta guerra civile, dal 1975 al 1990 – provocata dal’intrinseca debolezza della società libanese frammentata e quindi preda di antagonismi – le invasioni israeliane (nel 1978, nel 1982, nel 2006), il continuo ’controllo’ siriano, la presenza sul territorio di circa 500mila rifugiati palestinesi, l’assassinio del Primo ministro Rafiq Hariri nel 2005.
L’attacco a Gaza ha risvegliato i timori in una parte di sciiti libanesi, di un’altra invasione d’Israele, nel sud. Il leader del partito Hezbollahah, Hassan Nasrallah ha già avvisato TelAviv. La risposta ad un eventuale attacco, sarà un lancio di missili. Storicamente poi il Libano è stato sempre connesso con la Siria. E ora guarda con apprensione al conflitto che potrebbe estendersi all’interno dei suoi confini. Al nord, nella zona di Tripoli da mesi sono in atto scontri fra sciiti pro Bashar e sunniti anti Bashar. E se le forze progressiste tifano per cambio di regime in Siria, si percepisce chiaramente nel Paese anche il timore che la Siria diventi un altro anello dell’alleanza Fratellanza Musulmana e Stati Uniti.
In questo quadro s’inseriscono le elezioni politiche previste per la primavera del prossimo anno. Tutti sono in teoria d’accordo nell’affermare che una riforma elettorale sia ormai inevitabile. Ma la via per raggiungere l’obiettivo è piena di ostacoli. Intanto ieri (26 novembre) a Beirut, il Presidente libanese, Michel Suleiman, e il Presidente armeno, Serzh Sarkissian, hanno lanciato un appello per risolvere la crisi siriana tramite canali politici senza interventi militari esterni. Suleiman ha aggiunto che “il Libano continuerà a mantenere una posizione neutrale sui conflitti regionali”.
Vengono in mente alcuni versi della celebre canzone di Fairouz ’Li Beirut’: “Beirut con il suo animo produce vino e sudore, pane e gelsomini con le fatiche dei suoi abitanti. Ma allora perché ha il sapore di fiamme e fumi?”.
Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro: La fragilità del Libano (riproducibile citando la fonte)
Operazione Pace in Medio Oriente?
Tra attacchi, rivolte, tregue, stabilità e instabilità regionali, cambiamenti strategici, si aprono spiragli per processi politici stabili. Sperando che non sia l’eterno gioco dell’oca.
L’iniziativa che non è riuscita in Siria ai due inviati speciali dell’Onu e della Lega Araba, Kofi Annan e Lakhdar Brahimi, è stata raggiunta con successo dall’Egitto del Presidente Morsi. Il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, lo ha ringraziato “per essersi assunto la leadership che ha fatto di questo Paese un pilastro per la pace e la stabilità regionale”. Ma neppure Mohammad Morsi, leader dei Fratelli Musulmani e primo Presidente salito al potere in Egitto attraverso elezioni democratiche, avrebbe forse potuto tagliare il traguardo senza l’arrivo al Cairo, ’fulmineo’ e inaspettato, di Hillary Clinton in rappresentanza degli Stati Uniti, da sempre vigili protettori d’Israele. Un segnale forte per Netanyahu. Un altro segnale, la vittoria dell’Islam politico che, senza dubbio, ha cambiato gli equilibri strategici regionali. Oltre alla perdita della Turchia: un alleato che Israele, si è ’giocato’ nel 2010 dopo l’incidente della Mavi Marmara, la nave turca con gli attivisti che portavano aiuti proprio alla Striscia di Gaza. O forse ’Bibi’ ha deciso che in questo momento gli conveniva “provare a fare politica anziché guerre” come gli ha suggerito in una lettera aperta David Grossman? (’Repubblica’ del 6 novembre 2012)
Tregua. Tregua sperata, rinviata, di nuovo raggiunta. Una tregua che invece – per ben due volte – era stata sfiorata, ma subito disattesa in Siria, dove proseguono i combattimenti fra le forze fedeli al Regime e gli oppositori. Una lotta sempre più feroce, senza esclusione di colpi che non sembra trovare una risoluzione anche dopo la nascita, a Doha, della nuova Coalizione dell’Opposizione siriana. La coalizione ha già ottenuto il riconoscimento di gran parte dei paesi occidentali, Francia in testa, ed è guidata dallo sceicco sunnita Moaz al-Khatib, ex imam della moschea degli Ommayyadi di Damasco, che non ha mai nascosto le simpatie per la Fratellanza Musulmana.
Mentre alcuni Paesi si assestano e in Siria continua la cruenta guerra civile, la Giordania dopo due anni di proteste ’soft’ sembra vacillare. Nelle ultime settimane infatti i manifestanti oltre a esprimere malcontento per i provvedimenti economici per la liberalizzazione dei prezzi, cominciano a chiedere la caduta del regime e di re Abdallah. Le proteste, sostenute dai Fratelli musulmani e dai partiti di sinistra, sono state represse con violenza dalle forze dell’ordine. Abdallah riuscirà a mantenere il potere? La partita è aperta.
Tregua raggiunta dunque fra Hamas, che governa la Striscia di Gaza, e Israele. Ma adesso arriva la parte più difficile: trasformare la tregua in un reale processo politico. Altrimenti si continuerà a vivere sul filo del rasoio e sarà sufficiente un piccolo incidente per tornare ai banchi di partenza. Come nel gioco dell’oca. Insomma vorremmo che il sottotesto della parola ’tregua’ fosse ora ’processo di pace’. Quando nessuno più sembrava crederci, forse è possibile.
di Antonella Appiano, in esclusiva per L’Indro Operazione Pace in Medio Oriente? , riproducibile citando la fonte.
Fratelli musulmani: l’eccezione giordana
I rapporti di forza nel Regno Hascemita
Il Pragmatismo politico del Movimento e del Fronte d’Azione Islamico fra potere, necessità storiche e fratture interne.
Nel Regno Hascemita, al contrario della Tunisia, dell’ Egitto, della Siria, i Fratelli Musulmani non sono stati combattuti e costretti alla clandestinità. Anzi, con il partito del Fronte di Azione Islamico, braccio politico del Movimento, fanno parte integrante del sistema politico da almeno sessant’anni e rappresentano la principale forza di opposizione. “Il governo è solido, Abdallah non permetterà che in Giordania accada ciò che è accaduto in Tunisia, Egitto, Siria”, ripete Hamid ogni volta che gli telefono ad Amman. “Ma Hamid che cosa pensi della grande manifestazione del 5 ottobre?”, (i dati ufficiali parlano di circa 15mila partecipanti mentre quelli degli organizzatori, di 50mila). “E’ vero”, ammette riluttante, “c’è una certa lentezza nel procedere con le riforme e le nuova legge elettorale e la gente vuole cambiamenti più radicali”. Però Hamid non vuole commentare il fatto che la manifestazione di Ottobre – il giorno dopo lo scioglimento del Parlamento deciso dal Re – è stata promossa dal Fronte di Azione Islamico. Lo scioglimento del Parlamento, precede le elezioni politiche, più volte annunciate, e che dovrebbero tenersi alla fine dell’anno. Quale sarà il peso del Fronte di Azione Islamico nelle elezioni? Avranno lo stesso successo riscosso in Egitto e in Tunisia?
Giordania: calma apparente
Giordania: calma apparente?
La Giordania finora è stata solo sfiorata (per breve tempo dal gennaio 2011) dall’ondata delle rivolte che hanno travolto gli altri Stati arabi. Ma la calma apparente non deve ingannare. Il Paese infatti deve affrontare il problema dei profughi siriani. Secondo l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Acnur), i siriani registrati in Giordania sono circa 70.000 (20mila nel campo di Zatari) più le decine di migliaia non inserite nelle liste dell’Agenzia dell’Onu.
Il governo di Amman, scrive oggi il ’Jordan Times’, “sta allestendo un secondo campo profughi nella zona di Ribaa Sirhan, vicino al confine. La struttura dovrebbe essere in grado di ospitare almeno 20.000 persone”. Ma il ministro dell’Informazione giordano Samih Maaytah si è detto preoccupato: “La risposta alla crisi umanitaria richiede risorse superiori alle nostre stesse capacità: servono un programma e una risposta internazionali”. I rifugiati rappresentano un peso enorme per l’economia giordana, fragile e provata dal debito crescente, dalle scarse risorse idriche ed energetiche.
Non solo. Sono anche un’incognita che va ad aggiungersi alla ’storica tensione’ tra la Casa Reale hascemita e la maggioranza palestinese. Per capire meglio è necessario ricordare brevemente le caratteristiche della società giordana. Anche se la base di potere della monarchia hashemita è rappresentata da tribù transgiordane, la maggioranza della popolazione del regno è ormai di origine palestinese (i dati sono controversi, ma sembrano attestarsi sul 50-60%).
I primi profughi palestinesi sono arrivati in Giordania nel 1948, a seguito della creazione dello Stato di Israele. E continuarono ad arrivare, dagli anni 50 alla ’Guerra dei sei giorni’ del 1967, in quella che si chiamava Cisgiordania ma faceva parte del Regno giordano. Ai Palestinesi della Cisgiordania è stata concessa la cittadinanza, ma sono sempre stati discriminati: esclusi dall’amministrazione pubblica e dai servizi di sicurezza, e pur costituendo la maggioranza da un punto di vista demografico, rappresentati in parlamento solo il misura fra il 10 e il 20%.
L’opposizione popolare che si è manifestata nel paese a partire dal gennaio del 2011 era ed è composta sia da transgiordani che da giordani palestinesi, ma le rivendicazioni non sono le stesse. Comuni, certo, le richieste economiche, l’insofferenza contro la corruzione dilagante e l’esigenza di un governo che risponda delle sue azioni direttamente ai cittadini. Ma se si tocca il tasto della rappresentanza a livello politico, le note si fanno dolenti. Un parlamento più democratico significa nei fatti un parlamento più ’palestinese’.
L’urgenza del re Abdallah, di trovare una soluzione alla questione palestinese è testimoniata dai tentativi – sia pure infruttuosi – della monarchia (all’inizio di quest’anno) per riavviare i negoziati di pace morti da tempo. E dall’apertura nei confronti di Hamas (il cui leader Khaled Meshaal si è recato ad Amman a fine gennaio). Un’apertura fittizia dato che re Abdallah non si è dimostrato disposto a ospitare nuovamente leader dell’Organizzazione palestinese.
La guerra civile siriana sta complicando le cose. Oltre ai profughi, la Giordania – che ha già accettato già aiuti economici dall’Arabia Saudita – sembra stia subendo pressioni da Riad per aprire i propri confini alle armi provenienti dall’Arabia Saudita e dirette ai ribelli siriani.
Corruzione (gli scandali emersi nell’ultimo anno), crisi economica, tensioni sociali. La Giordania reggerà all’onda d’urto che potrebbe travolgerla?
Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro – Giordania: calma apparente (riproducibile citando la fonte)
Ritorna Khaled Meshaal
Un nuovo passo nel processo di pace tra Israele e Palestina ?
Dopo 13 anni di ’esilio’, il capo dell’Ufficio politico del partito islamista di Hamas, KhaledMeshaal, torna in Giordania.
Nato nel villaggio di Silwad, vicino a Ramallah, in Cisgiordania, si era rifugiato in Kuwait con la famiglia, dopo la guerra del 1967. Una laurea in fisica, e un profilo da attivista e leader nel Fronte Islamico, cioè la sezione locale dei Fratelli Musulmani. Poi, alla fine degli anni Ottanta, entra nella direzione esterna del movimento di Hamas. Ma l’Iraq invade il Kuwait eMeshaal insieme a migliaia di profughi palestinesi, si trasferisce in Giordania. Ed è proprio qui che si fa conoscere come esponente di Hamas, portando appoggio esterno al movimento.
Nella capitale giordana di Amman, nel settembre del 1997, sfugge ad un attentato degli agenti del Mossad (i servizi segreti israeliani). Due anni dopo, le relazioni fra la leadership giordana e Hamas si deteriorano, a causa delle pressioni diplomatiche degli Stati Uniti e di Israele sul re Hussein di Giordania. E nel novembre 1999, Khaled Meshaal – anche se possiede cittadinanza giordana- viene espulso dal Paese insieme ad altri rappresentanti del gruppo. Meshaal va a vivere in Siria, a Damasco.
Quale è il ruolo di Meshaal? ’Volto ufficiale’ di Hamas fuori dalla Palestina, il suo incarico è quello di rafforzare le relazioni con Governi e le Organizzazioni straniere.
Secondo le fonti del ’Jerusalem Post’ il leader “arriverà ad Amman, domenica 29 gennaio grazie ad una mediazione del Qatar. Sarà accompagnato dal principe ereditario dell’Emirato,Tamim Ben Hamad Al Thani, e ricevuto dal re Abdallah e altri responsabili del governo”. Si apre una nuova pagina nei rapporti tra il movimento islamista e il Regno hashemita? Sempre stando alla testata“gli incontri non saranno a discapito dell’autorità palestinese che per la Giordania è l’unico rappresentante legittimo del popolo palestinese”. Ma Amman spera in un passo di riavvicinamento tra Fatah e Hamas, i due principali movimenti politici rivali palestinesi. Chissà se il re Abdallah restituirà a Masha il suo passaporto giordano, o gli permetterà di risiedere nel Paese.
Palestina, vittorie e sconfitte
“Ancora una volta, i palestinesi sono stati puniti perché hanno cercato di ottenere giustizia” è il commento amaro del dottor Josef Salman, responsabile per l’Italia della Mezza Luna Rossa Palestinese. Il Congresso degli Stati Uniti sta infatti per bloccare i 200 milioni di dollari destinati all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), che il 23 settembre tramite il suo Presidente, Abu Mazen, aveva inoltrato la richiesta di riconoscimento alle Nazioni Unite nonostante la disapprovazione americana. “Sbagliamo sempre a quanto pare. Adesso perché abbiamo osato fare un passo verso l’indipendenza e cinque anni fa perché abbiamo votato – attraverso libere elezioni giudicate trasparenti da tutti gli osservatori internazionali – il partito di Hamas che non era gradito agli Usa , a Israele alla Ue”. Anche nel 2006, infatti, dopo la vittoria di Hamas, la comunità internazionale aveva tagliato gli aiuti ai Palestinesi.
I finanziamenti esteri fanno parte degli accordi di Oslo. Queste ultime sanzioni colpiranno i progetti sanitari e sociali ma non il settore della sicurezza che l’ANP coordina con Israele. Dalla comunità Palestinese di Roma chiariscono: “Come al solito a patire saranno i palestinesi. Garanzia invece per Israele che, in questo modo, non mette a rischio la sua sicurezza in Cisgiordania”. Eppure qualche preoccupazione riguardo la sopportazione dei Palestinesi e dell’ANP, (logorati dall’Occupazione israeliana e dalla dipendenza dagli aiuti stranieri che arriva a ‘intermittenza’ come minaccia o come incoraggiamento), il primo Ministro Benjamin Netanyahu, deve averla avuta. Tanto da dichiarare al Congresso degli Stati Uniti: “ tagliare interamente i fondi all’ANP non sarebbe positivo”.
E molti osservano un possibile collegamento fra la situazione in Cisgiordania e l’accordo firmato dal primo Ministro Israeliano con il movimento di Hamas, martedì scorso. Un accordo che permette il ritorno in patria del soldato israeliano Gilad Shalit, dopo più di 5 anni di prigionia nella Striscia di Gaza, in cambio del rilascio dalle carceri israeliane di 1027 detenuti palestinesi. Netanyahu posta così l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, dai problemi dei palestinesi – aggravati dal rifiuto del riconoscimento dell’ONU – al suo successo come artefice della missione ‘portate a casa il soldato Shalit’.
Ma il momento di gloria è anche per Hamas: la liberazione di un migliaio di palestinesi per un solo israeliano è un evento storico. E vittoria anche per il ‘nuovo’ Egitto, mediatore delle trattative. Dopo la rivoluzione di gennaio ha dimostrato di poter svolgere ancora il ruolo di “ponte” tra israeliani e palestinesi nonostante le speranze del Presidente siriano Bashar al-Assad, che a gennaio, nel cambio della guardia in Egitto, aveva visto la possibilità di un Paese ‘orientato verso la Palestina’ a scapito di Israele.
Lontano dalle luci dalla ribalta, rimane invece Abu Mazen che verrà ricevuto domani, venerdì 14 ottobre (n.d.r domani) dal presidente francese Nicolas Sarkozy. L’incontrò sarà dedicato alla richiesta fatta da Sarkozy alla Casa Bianca per attribuire alla Palestina lo ‘statuto di Stato Osservatore’.
Il ruolo di primedonne nella questione palestinese conquistato da Bibi (così viene chiamato in Israele, il Primo ministro) e da Hamas, hanno relegato a comprimario il Presidente palestinese Abu Mazen. L’iniziativa di settembre per l’adesione all’Onu dello Stato di Palestina, pur diffusa con gran risalto dai media, sembra già essere stata dimenticata.
Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro Palestina vittorie e sconfitte