Qualche giorno di attenzione sui media a larga diffusione, la Siria l’aveva guadagnata, durante le elezioni presidenziali del 3 giugno scorso. Elezioni pluralistiche solo da un unto di vista tecnico e non rappresentative di tutto il Paese dato che si erano svolte solo nelle zone controllate da Regime. E non legittime perché avvenute dopo un cambiamento della legge elettorale che- di fatto – escludeva gli esponenti della coalizione degli oppositori all’estero e i dissidenti storici. Vinte come previsto da Bashar al -Asad.
Elezioni contestate, svolte in un Paese in guerra conclamata, minacciato dall’emergenza dei gruppi jihadisti legati o meno ad al Qaeda, dove l’allora gruppo estremista dell’ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e delle Siria) chiamato dai siriani Daesh (Dawla Islamiya fi Iraq wa Sham) ora Califfato (Stato Islamico, IS) dopo l’auto-proclamazione del suo leader Abu- Bakhr al Baghdadi -aveva già preso possesso di larghe fette del territorio a nord est della Siria. E’ quindi pur vero che -esistono numerose testimonianze- molti siriani saranno andati a votare pensando: ‘alla fine, fra le milizie spietate di Daesh e il dottor Bashar, è Bashar il male minore’.
Ma è forse cambiato qualcosa? Bashar al- Asad è il signore della guerra di un territorio in larga parte distrutto. La leadership di Damasco controlla le zone occidentali del Paese, da Damasco a Latakia, passando per Homs. Mentre l’est è ‘governato’ in buona parte dallo Stato Islamico, ‘il Califfato’. L’Esercito Siriano Libero sta perdendo terreno. Gli altri gruppi ribelli si contendono, lottando fra di loro e contro l’Esercito regolare, il nord della Siria, tra cui Aleppo e le province di Idlib e Hama. Le forze sul terreno sono variegate e si scontrano appunto spesso fra loro. Il più forte rimane sempre il ‘Califfato’.
Secondo l’Institute for the Study of war, lo scorso luglio, lo Stato Islamico ha conquistato alcune città lungo il fiume Eufrate: come Deir Ezzor, sesta città siriana per numero di abitanti, e ora controlla circa l’80 per cento della provincia. Sembra che abbia recentemente preso possesso anche di una base militare a Raqqa e una seconda base nella provincia nord-orientale di Hasaka. Ancora secondo l’Institute for the Study of war, il Califfato ha raggiunto anche Aleppo (in parte ancora in mano all’Esercito siriano libero) e pesantemente bombardata dall’aviazione governativa.
Una situazione fluida, con alleanze che si fanno e si disfano nel giro di pochi giorni. I civili come sempre, tragicamente intrappolati fra i vari contendenti di una guerra che -pur interessando pochi- è invece sempre più sanguinosa. Gli ultimi due mesi (giugno e luglio) secondo il Centro di documentazione delle violazioni in Siria hanno registrato un altissimo numero di morti, più di 1300.
Il Califfato combatte anche i curdi siriani nel nord del Paese -che avevano già dichiarato la propria indipendenza dal Governo centrale nell’autunno del 2013- con esiti altalenanti. Il PYD (Democratic Union Party) e il suo braccio armato, si stanno contendendo da mesi la ragione siriana di Hassakah che confina con il Kurdistan iracheno e il sud della Turchia (sempre a maggioranza curda).
E’ evidente, quindi che -a parte il dramma dei siriani e la crisi umanitaria – non possiamo disinteressarci della Siria. Le connessioni con i Paesi confinanti sono evidenti e pericolose. Si sta ridisegnando una nuova mappa della Regione. Il Califfato potrebbe arrivare a minacciare la stessa area controllata da Bashar al Asad. Questa abitudine molto italiana di considerare i problemi e le crisi di Paesi vicini a noi come la Sira, come problemi che non ci riguardano -se non per la paura egoistica di dover ospitare i rifugiati- è un’arma a doppio taglio. Siamo tutti coinvolti in questo cambiamento storico e, anche se è già tardi, sarebbe meglio capirlo.