Ora è tardi. Anzi, è tardi da un pezzo. E’ tardi per l’unica soluzione che avrebbe potuto aiutare la Siria e i siriani, quella politica e diplomatica. ‘Se non ora quando?’ si chiedeva Primo Levi. E la risposta è: ‘prima’.
Prima dei 100 mila morti, prima che la Siria si disgregasse come entità territoriale,
Sugli schermi della televisione siriana passa a ripetizione uno spot che mostra un dattero, alimento tradizionale del Ramadan, che contiene un proiettile. Sotto, una scritta: «Non rovinate il Ramadan con la violenza». Era l’11 agosto 2012, un anno e un mese fa, ad Aleppo. Quest’anno il Ramadan è iniziato il 9 o il 10 luglio (varia da Paese in Paese secondo le fasi lunari), ma in Siria le armi
«Sarà la città perduta di Atlantide. Si è ricostruita sette volte, ma fino a quando può andare avanti questa farsa? Un giorno dovrà finire. E quando accadrà sarà bellissimo» così scrive Zena El Khalil nel suo “Beirut I love you”, che descrive i 34 giorni dell’attacco israeliano, nel 2006, contro il Libano. Un Paese che ha sofferto una lunga guerra civile – dal 1975 al 1990 – le invasioni israeliane (nel 1978, nel 1982, nel 2006), il ’controllo’ siriano, la presenza sul territorio di circa 500mila rifugiati palestinesi, l’assassinio del Primo ministro Rafiq Hariri nel 2005. E che oggi sembra ritornare in prima linea con scontri e attacchi e il “fumo e le fiamme” cantati da Fairuz.
Dopo mesi di dichiarazioni sulla posizione di ‘neutralità nei confronti dei conflitti regionali’, per il Libano, esposto al contagio della guerra civile siriana, si sono infatti aperti nuovi scenari. Piuttosto preoccupanti. Domenica scorsa, due missili hanno colpito il quartiere meridionale di Beirut, Dahyeh, roccaforte del movimento sciita di Hezbollah. Un attacco non casuale. Un messaggio chiaramente intimidatorio. Un avvertimento per il leader del Partito di Dio, Hassan Nasrallah, dopo la dichiarazione pubblica dell’intervento dei suoi miliziani in Siria, a fianco dell’esercito del regime. In Libano sale la tensione e sembra ormai impossibile che il Paese possa resistere senza danni al vortice che sta distruggendo la Siria.
Missili nei quartieri controllati da Hezbollah a Beirut. Scontri a Tripoli e a Sidone. Al nord del Libano, a Tripoli, si respira una “atmosfera di violenza” come ha dichiarato, via skype, una famiglia che vive in zona. Gli scontri tra i sunniti del quartiere di Bab el Tabanneh, schierati con i ribelli siriani e tra gli alawiti (il ramo sciita a cui appartiene la famiglia degli Assad) di Jabal Mohse, “si sono intensificati”.
Il bilancio per ora è di circa 30 vittime e più di 200 feriti. Ma non solo. Sempre secondo la testimonianza «sono stati visti combattenti stranieri in zona». L’episodio che sembra aver dato il via agli scontri più duri sembra essere stato l’offensiva dell’esercito siriano, coadiuvato da militanti di Hezbollah, a Qusayr, una città molto importante dal punto di vista strategico, vicino al confine libanse e sulla strada fra Damasco e la costa. Scontri anche a Sidone, la capitale Sud del Paese, tra i miliziani dello sceicco salafita, Ahmad al- Assir, e i rappresentanti di Hezbollah. Non sono certo una novità, proseguono infatti dall’ottobre scorso, ma il ritmo diventa sempre più serrato. Mentre lo sceicco lancia un appello ai giovani sunniti libanesi perché si uniscano alle fila dei ribelli siriani .
E tutto questo dopo le dimissioni in aprile del Primo Ministro Mikati, il disaccordo sulla nuova legge elettorale ‘ortodossa’, e l’impossibilità quindi di andare alle urne nei tempi stabiliti. Il sistema elettorale ‘ortodosso’ consente agli elettori di votare solo i rappresentanti della propria confessione. Secondo i suoi sostenitori, il sistema è in grado di proteggere le comunità. Secondo gli oppositori accentuerà invece il confessionalismo, in un paese già diviso.
Intanto il Libano, sempre a causa della guerra civile siriana, avverte una sensibile crisi economica a livello commerciale ( le esportazioni libanesi sono diminuite ) e il turismo è in calo. «Abbiamo annullato molte prenotazioni» ammettono le receptionist di alcuni alberghi di Beirut. «La gente ha paura». Ad aggravare la situazione , il numero dei rifugiati siriani: circa 400.000 registrate ufficialmente presso l’Unhcr e molto probabilmente lo stesso numero di “clandestini” .
Ma come scrive ancora Zena El Khalil «Beirut è l’immaginazione senza censure. Ciò che desideri può avverarsi». Non desideriamo un’altra guerra civile in Libano. Non sembra desiderarla neppure Nasrallah, che nello stesso discorso in cui ammetteva il coinvolgimento in Siria, ha dichiarato agli avversari: «Combattiamo in Siria ma non in Libano».
Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro La guerra civile siriana ha varcato i confini (riproducibile citando la fonte)
Fra dichiarazioni e smentite, anche sull’uso delle armi chimiche da parte dei ribelli, sale la tensione nell’area. E nascono nuovi interrogativi.
Certo la dichiarazione che Carla del Ponte – già procuratore del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia e membro della Commissione Onu che indaga sui crimini di guerra in Siria – ha rilasciato domenica scorsa (5 maggio) alla RadioTelevisione Svizzera è stata eclatante: «Stando alle testimonianze che abbiamo raccolto fino ad ora sono state utilizzate armi chimiche, in particolare gas nervino, ma dagli oppositori, dai ribelli». E ha concluso: «In conflitti come quello siriano, non ci sono buoni e cattivi. Per me sono tutti cattivi perché tutti, sia una parte sia l’altra, commettono crimini».
Una dichiarazione forte e inaspettata per i Paesi occidentali che sostengono l’opposizione siriana, pronti a intervenire militarmente nel caso in cui il regime usasse le armi chimiche. La tesi di Carla del Ponte però è stata smorzata ieri sera (6 maggio) da una nota della stessa Commissione Onu in cui si sottolinea «che non sono state raccolte prove conclusive sull’uso di armi chimiche in Siria dalle parti coinvolte nel conflitto».
Da dicembre scorso il regime e gli oppositori si accusano a vicenda sull’uso di armi non convenzionali. Le prove si troveranno prima o poi? Se non avessimo a che fare con una delle guerre più crudeli e sanguinose, sembrerebbe tutto una farsa. «Armi chimiche sì, armi chimiche no. Abbiamo le prove. Non le abbiamo. Sono solo sospetti». E se le armi chimiche sono in mano agli oppositori, di quali oppositori stiamo parlando? Quale fazione armate fra le tante milizie che ormai combattono sul terreno?Siriani dell’esercito libero o jihadisti stranieri e salafiti o il potente Fronte al -Nusra?
Intanto Israele compie due raid in territorio siriano nel week-end (precisamente nella notte tra giovedì 2 e venerdì 3 maggio, e poi nella notte fra sabato 4 e domenica 5 maggio). Silenzio stampa di Tel Aviv, come sempre. Il governo israeliano infatti non ha confermato gli attacchi, anche se – secondo fonti militari – l’obiettivo sarebbe stato un arsenale di missili iraniani destinate alle milizie libanesi di Hezbollah.
Per Damasco si è trattato invece di un attacco contro il centro di ricerche militari di Jamraya, vicino Damasco, già preso di mira nel gennaio scorso. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, nel raid sono morti 42 soldati governativi. Il ministro degli esteri siriano ha dichiarato su Sana – l’agenzia di stato ufficiale – che «l’attacco di Israele rappresenta un’alleanza tra terroristi islamici e Israele».
Il raid, ha aggiunto il ministro dell’Informazione siriano Omran al-Zoubi «apre le porte a qualsiasi possibilità». Le autorità militari israeliane hanno predisposto la chiusura dello spazio aereo civile a nord, più per timore di una rappresaglia delle milizie sciite libanesi di Hezbollah, alleate degli Assad, che delle minacce del Regime di Damasco. Appare infatti improbabile che in un momento in cui il regime è impegnato sul territorio in una lotta per la sua stessa sopravvivenza, sia in grado di aprire un altro fronte. Soprattutto contro un esercito così forte come quello israeliano.
Anche gli Stati Uniti, come Israele, non hanno rilasciato dichiarazioni ufficiali sull’accaduto. Ma sembra poco credibile che le autorità statunitensi non fossero al corrente dell’operazione. Un raid che, mentre la guerra civile prosegue violenta in Siria e l’Occidente non sa che decisioni prendere, potrebbe fare comodo a molti. Per indebolire Hezbollah e quindi anche l’Iran. Attraverso l’emittente di stato Press Tv, l’Iran ha criticato gli attacchi di Israele contro la Siria e ha esortato «i paesi della regione a levarsi contro le aggressioni israeliane» mentre attraverso Al-Manar, il canale televisivo di Hezbollah, il “Partito di Dio” ha descritto l’attacco come la prova del collegamento tra «l’entità sionista e i mercenari estremisti che combattono il regime siriano».
La Turchia condanna Israele e la Russia esprime preoccupazioni per il Libano. «Stiamo esaminando e analizzando tutte le circostanze relative alle relazioni del 3 maggio e del 5 maggio, quando si sono verificati gli attacchi aerei israeliani», ha dichiarato il ministero degli Esteri russo in una nota, nella quale si precisa che i raid di Tel Aviv minacciano la stabilità del vicino Libano.
E il grande game si complica con dichiarazioni non avvalorate da fonti secondo le quali Israele avrebbe mandato un messaggio segreto a Bashar al Assad, garantendogli appunto di non voler intervenire nel conflitto. Il “nemico” di Israele a quanto pare, è il “Partito di Dio”. Stiamo per assistere a un nuovo conflitto fra Tel Aviv e Hezbollah?
Abbiamo già scritto quanto sia difficile analizzare eventi ancora in atto. E’ un momento storico in cui nulla è scontato. Terreno friabile, quello delle rivolte dei Paesi arabi. Un fiume in piena che può deviare il corso molte volte ancora. Che ci costringe a continui aggiornamenti e riconsiderazioni. Tentiamo, comunque, di terminare la sintesi prendendo in considerazione l’area del Mashreq e quella dei Paesidel Golfo.
Mashreq Per ora è la zona regionale più problematicaa causa della funzione chiave che svolge in geopolitica. Già a rischio prima delle ‘primavere’ per il conflitto senza fine fra Israele e i palestinesi e oggi, più che mai, teatro di scontri non risolti. In Siria è tuttora in corso una violenta guerra civile, fra l’esercito, le milizie del regime e i gruppi armati dei ribelli, complicata dalla presenza di combattenti stranieri jihadisti e di frange terroristiche come il Fronte AlNusra. La Siria si sta disgregando, come ha dichiarato l’inviato delle Nazioni Unite, Lakhdar Brahimi, “la guerra sta distruggendo il Paese pezzo dopo pezzo”. Una guerra per procura, dove i ribelli sono appoggiati dalla Turchia, dai Paesi arabi del Golfo (Arabia Saudita e Qatar) e dai Paesi Occidentali. E il regime del Presidente Bashar-al Assad, sostenuto dalla Russia, può contare invece sull’Iran e gli hezbollah libanesi. Non possiamo prevedere lo scenario futuro, ma certo una transizione è ancora molto lontana. Ricostruire la Siria sarà una operazione lenta, complessa e costosa in termini umani ed economici. Senza contare il rischio-contagio in Libano e http://www.lindro.it/il-punto-della-situazione-in-giordania/. Finora le primavere arabe hanno spazzato via i regimi cosiddetti laici. Ma se il conflitto dovesse debordare in monarchie come la Giordania, il puzzle mediorientale cambierebbe di nuovo, assumendo forme nuove.
Area Paesi Golfo. Ad eccezione del Bahrein, le Petromonarchie del Golfo si sono ‘salvate’ dalle rivolte. Con il denaro proveniente dalle rendite petrolifere infatti, sono riuscite a tacitare lo scontento dei gruppi di opposizione ‘laica’ che chiedevano riforme. Il meccanismo di questi stati-provvidenza, come scrive Marcella Emiliani “si regge sull’assioma no taxation no representation. Gli autocrati possono cioè permettersi di non concedere alcuna rappresentanza politica nella misura in cui non fanno pagare le tasse”. D’altra parte, l’Arabia Saudita, il Qatar e gli altri stati-provvidenza hanno sempre elargito denaro per garantire la stabilità interna.
Bahrein. Proprio oggi (14 febbraio n.d.r) si ‘festeggia’ il secondo anniversario delle proteste contro la monarchia sunnita di re Hamad al- Khalifa. La popolazione, formata in maggioranza da sciiti (circa il 70%) discriminati sul piano sociale, politico ed economico, rivendica diritti uguali per tutti e un vero Parlamento. Ma la monarchia continua ad attaccare i manifestanti, forte anche dell’aiuto dei militari dello Scudo della Penisola (forza congiunta dei Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo) e del silenzio complice dell’Occidente e degli Stati Uniti che, ricordiamo, proprio in Bahrain hanno basato la IV Flotta.
Infine, fa parte geograficamente dei Paesi Golfo ma non è uno stato-provvidenza, lo Yemen, dove si continua a combattere. Uno scontro complesso fra clan, esercito e gruppi di Al Qaida al sud, ed esercito e gruppi sciiti Huti al Nord del Paese. Anche in Yemen, due giorni fa (il 12 febbraio) si è celebrato il secondo anniversario delle rivolte contro l’ex presidente Ali Abdullah Saleh fra scontri nella capitale e nel sud del Paese dove le forze di ordine hanno sparato sulla folla. Durante le manifestazioni i dimostranti hanno chiesto che Saleh venga richiamato in patria e processato.
Dopo l’entusiasmo iniziale di fronte alle rivolte arabe, lo scenario appare senza dubbio instabile anche se sarebbe sbagliato affermare che le “primavere sono sfiorite”. Ci troviamo ancora, come scrisse Ryszard Kapuściński nel “turbine della storia”.
L’Egitto e la Tunisia dopo la fine delle autocrazie ’laiche’
Le vittorie dei Fratelli Musulmani e di En-Nahda sono un insuccesso? E intanto in Siria continua la battaglia mediatica.
Proteste e scontri in Egitto e in Tunisia. Scelte sbagliate del presidente Morsi che dopo essere stato ’acclamato’ per la mediazione – conclusa con successo – nelle trattative della tregua tra Israele e Hamas, è contestato dalla Piazza. Certo, una mossa poco saggia quella di reclamare i pieni poteri. E di imporre una nuova costituzione che riprende pesantemente la Shari’a. Gli egiziani hanno già dimostrato di non essere più disposti ad accettare dittature e il Paese sta vivendo una grave crisi economica e sociale. Ma il percorso da una autocrazia a un governo che garantisca ’democrazia’, sia pure declinata secondo l’Islam politico richiede tempo. Passaggi obbligati. Forse è presto per dire che la partita è persa. Anche in Tunisia dove, ricordiamo, dopo la cacciata di Ben Ali, ha vinto un governo di coalizione con a capo il partito religioso En-Nahda (Rinascita), sono ripresi scontri e proteste. Però En-Nahda deve mediare con il gruppo più radicale che fa parte della coalizione. E i compromessi storici, si sa, non sempre hanno successo. Certo il momento è importante: se fallisce anche l’Islam politico che cosa succederà in questi Paesi così vicini all’Italia e all’Europa? L’instabilità è un lusso che non possiamo permetterci.
Intanto non si profila nessuna soluzione per la Siria. Il generale prussiano Otto von Bismark diceva: “Non si mente mai come per una battuta di caccia, una donna o una guerra”. Siria e armi chimiche. Quale verità? In questi giorni le dichiarazioni e le smentite riguardo all’arsenale chimico in possesso dalla Siria – e che potrebbero essere usato contro i civili – si rincorrono. La ‘BBC’ (attingendo a fonti del Foreign Office) riporta che la leadership di Damasco è pronta farne uso. Il regime dichiara invece di essere contrario all’uso di armi a base di gas contro la popolazione. Anzi, accusa il gruppo jihadista Fronte al-Nusra di controllare una fabbrica di cloro.
Sul terreno appare ormai chiara l’avanzata degli oppositori armati. Non solo al confine con la Turchia, ma anche intorno a Damasco. Gli Stati Uniti continuano ad esprimere la preoccupazione che le armi finiscano in mani estremiste. Ma questo, in parte, è già avvenuto. In uno scenario post-Assad quindi le incognite sono tante. I vari gruppi – o parte dei gruppi che compongono la resistenza armata – potrebbero continuare a combattere. La nuova coalizione eletta a Doha, è davvero in grado di controllare il territorio? Di far deporre le armi? E si dibatte sul ruolo della Russia. Sta allontanandosi dal regime? Mentre nel nord del Libano, a Tripoli, si acutizzano gli scontri fra fazioni pro e contro Bashar Al-Assad. Fonti libanesi parlano di una quindicina di morti nell’ultima settimana.
Dal web continuano ad arrivare tweet e video di cui è impossibile accertare la fonte. Anche i bambini non sfuggono alla strumentalizzazione. Bambini avvolti da bandiere del regime o dell’esercito siriano libero che guardano in telecamere, recitando slogan. E’ davvero l’immagine più triste.
Fra tensioni non risolte, dinamiche regionali, un governo che si basa sulle componenti religiose, disoccupazione in aumento e i rifugiati palestinesi. E le elezioni si avvicinano.
Mi trovavo a Beirut quando è scoppiato il conflitto Gaza-Israele. E la soglia dell’attenzione per ciò che stava accadendo era molto alta. Nei caffé e nei negozi, i televisori erano sintonizzati sulle emittenti satellitari che trasmettevano immagini e notizie 24 ore su 24. E la gente non parlava d’altro. Che cosa succederà? Israele e Hamas firmeranno la tregua? E se invece scoppiasse una guerra regionale? Se Israele occupasse ancora una volta il sud del Libano? Ora che la tregua è stata raggiunta fra Hamas e Israele, l’esercito di Tel Aviv non ha invaso la Striscia e si è ritirato, chiamo dall’Italia, Samira, avvocato quarantenne di Sidone. Non nasconde il sollievo. Ma è consapevole che se l’accordo non si trasforma in un processo di pace, rimane fragile.
Fragile come il suo Paese, il Libano, che confinando con Israele e la Siria, è infatti dal punto di vista geopolitico, ’a rischio’, esposto a continue tensioni e non solo da oggi. Una entità politica chiamata Libano infatti non era mai esistita prima dello smembramento dell’Impero Ottomano seguito alla Prima guerra mondiale. Fu la Francia a tracciare i confini del nuovo Paese, riunendo in una unico Stato un mix di di confessioni religiose: musulmani sunniti e sciiti, cristiani, drusi. Nel 1926 la Francia permise che il Libano (ancora sotto l’influenza francese) si proclamasse Repubblica e adottasse una Costituzione. Ma proprio questa Costituzione conteneva fattori di pericolosa ambiguità che verranno alla luce presto.
Certo gli abitanti del Paese dei Cedri erano arabi per lingua e cultura, ma l’unità era compromessa dagli interessi economici e dalle diverse alleanze delle varie confessioni. Diciotto per la precisione quelle ufficialmente riconosciute (armeni cattolici, armeni ortodossi, alawuiti, Chiesa assira d’oriente, caldei cattolici,copti, drusi, greco-cattolici, greco ortodossi, ismailiti, ebrei, maroniti, protestanti, cattolici romani, sunniti, sciiti, siro-cattolici, sir-ortodossi ). Nel 1926, la maggioranza dei libanesi, era cristiana, circa il 55% seguita dai musulmani sunniti, dai musulmani sciiti e dai drusi. La costituzione, formalizzata in maniera definitiva nel 1943, prevedeva un assetto istituzionale regolamentato dall’appartenenza religiosa. Il Presidente della repubblica, cristiano (in particolare cristiano maronita); il primo ministro, sunnita, il presidente del Parlamento, sciita.
Con gli anni i rapporti di forza delle componenti cambieranno. Ma il Libano continua a esseregovernato dai gruppi religiosi che devono mediare di continuo fra cittadini e Stato. A questa situazione di instabilità strutturale, vanno poi aggiunti altri eventi: la lunga e cruenta guerra civile, dal 1975 al 1990 – provocata dal’intrinseca debolezza della società libanese frammentata e quindi preda di antagonismi – le invasioni israeliane (nel 1978, nel 1982, nel 2006), il continuo ’controllo’ siriano, la presenza sul territorio di circa 500mila rifugiati palestinesi, l’assassinio del Primo ministro Rafiq Hariri nel 2005.
L’attacco a Gaza ha risvegliato i timori in una parte di sciiti libanesi, di un’altra invasione d’Israele, nel sud. Il leader del partito Hezbollahah, Hassan Nasrallah ha già avvisato TelAviv. La risposta ad un eventuale attacco, sarà un lancio di missili. Storicamente poi il Libano è stato sempre connesso con la Siria. E ora guarda con apprensione al conflitto che potrebbe estendersi all’interno dei suoi confini. Al nord, nella zona di Tripoli da mesi sono in atto scontri fra sciiti pro Bashar e sunniti anti Bashar. E se le forze progressiste tifano per cambio di regime in Siria, si percepisce chiaramente nel Paese anche il timore che la Siria diventi un altro anello dell’alleanza Fratellanza Musulmana e Stati Uniti.
In questo quadro s’inseriscono le elezioni politiche previste per la primavera del prossimo anno. Tutti sono in teoria d’accordo nell’affermare che una riforma elettorale sia ormai inevitabile. Ma la via per raggiungere l’obiettivo è piena di ostacoli. Intanto ieri (26 novembre) a Beirut, il Presidente libanese, Michel Suleiman, e il Presidente armeno, Serzh Sarkissian, hanno lanciato un appello per risolvere la crisi siriana tramite canali politici senza interventi militari esterni. Suleiman ha aggiunto che “il Libano continuerà a mantenere una posizione neutrale sui conflitti regionali”.
Vengono in mente alcuni versi della celebre canzone di Fairouz ’Li Beirut’: “Beirut con il suo animo produce vino e sudore, pane e gelsomini con le fatiche dei suoi abitanti. Ma allora perché ha il sapore di fiamme e fumi?”.
Antonella Appiano in esclusiva per L’Indro: La fragilità del Libano (riproducibile citando la fonte)
…Beirut DownTown, tra i ruderi delle antiche Terme Romane, Moschee… e sit in di protesta sotto il Parlamento.
Sit in di protesta contro il governo, a seguito dell’attentato del 19 ottobre 2012 che ha causato la morte di 8 persone fra cui Wisam al-Hassan, capo dei servizi di Sicurezza