Rivoluzione
Bashar tra proclami e fatti.
Povertà e paura stanno dilagando nel Paese. Si tratta per inviare una missione di pace da parte dell’Onu.
Ancora notizie contrastanti dalla Siria e trattative diplomatiche per cercare di risolvere la crisi e porre fine alle violenze che continuano ormai da 11 mesi. Ieri (15 febbraio) il Presidente Bashar al-Assad ha annunciato che il 26 febbraio si terrà nel Paese un referendum costituzionale per approvare la nuova Costituzione. Tra le clausole della nuova Carta, sono previste la scomparsa del monopolio del partito Baath, al potere in Siria da quasi cinquant’anni, l’avvento del pluripartitismo e un limite ai mandati presidenziali. Solo due mandati da sette anni per il Presidente, da eleggere con suffragio universale. Nel testo si precisa anche che “non potranno partecipare ad elezioni le formazioni a base religiosa o regionale”.
Il popolo siriano sarebbe quindi chiamato alla urne per decidere se approvare la nuova Costituzione, fra dieci giorni. Una buona proposta. L’impressione, però, è che questa iniziativa sia arrivata troppo tardi. Dieci giorni sono pochi per organizzare un referendum in un Paese ormai diviso, nel caos, da cui continuano ad arrivare notizie di combattimenti fra le forze dell’Esercito libero siriano a fianco degli oppositori e l’esercito regolare con le Forze di sicurezza.
Il comportamento del Presidente Bashar appare incerto. Contradittorio, mentre l’opposizione lo accusa di voler guadagnare tempo. Anche Washington definisce l’annuncio di Assad ’ridicolo’, sottolineando come ogni precedente dichiarazione del regime si è finora rilevata falsa. La Russia invece ritiene l’annuncio importante, un passo avanti per riportare la stabilità nel Paese, e condanna l’isolamento di Damasco da parte dell’Occidente. Secondo Mosca “fare pressione per un cambio di regime in Siria non farebbe che peggiorare la situazione“.
Siria: rivolta o complotto
I ruoli strategici dell’esercito e di un’opposizione ancora divisa decidono il futuro del paese.
’Prima notizia’ sui media del Qatar e di tutta la Stampa del Medio Oriente, la rivolta siriana è invece seguita in Italia con scarsa attenzione se non nei momenti più drammatici: gli attentati con autobombe a Damasco o l’uccisione del giornalista francese, Gilles Jacquier, reporter di France 2, a Homs, in una esplosione nel quartiere alawita di Akrama. Episodi gravi che però non vengono mai analizzati in un quadro d’insieme. Come se la Siria e le sue proteste antigovernative, in atto da dieci mesi, fossero un problema che non ci riguarda,dimenticando la vicinanza geografica con il nostro Paese e gli scenari inquietanti che la rivolta potrebbe creare in tutta l’area del Medio Oriente. Noncuranza quindi o al massimo polemica ideologica fra chi crede nel movimento popolare o chi invece segue il filone del ’complotto’ occidentale appoggiato dalle petro-monarchie del Golfo.
Due i punti importanti a riguardo. Il primo. Se all’inizio delle proteste, a metà marzo del 2011, tale ipotesi – sostenuta subito dalla leadership di Damasco – doveva essere presa in esame, è pur vero che dopo dieci mesi di manifestazioni e repressioni non è più plausibile.Come credere che un apparato di sicurezza e un esercito come quelli siriani con l’aiuto delle milizie irregolari lealiste, non siano riuscite ancora a fermare “le bande di terroristi”?
Una Libia da costruire
Il fallimento della ’Jamahariya’, il governo delle masse teorizzato da Gheddafi, lascerà il posto alla democrazia?
“Gheddafi è stato arrestato dalle forze del Cnt, il governo di transizione libica, dopo la riconquista di Sirte”. Poi dopo un susseguirsi di notizie e smentite. “Il rais è morto”. Secondo le fonti della Tv satellitare Al-Arabiya e secondo fonti Ansa, il colonnello sarebbe arrivato senza vita nella città di Misurata. Ancora notizie discordanti. Secondo il Cnt,Ghaddafi è morto in seguito alle ferite riportate durante la cattura. AlJazeera, riferisce che il rais è stato ucciso durante una sparatoria. Secondo Libya Tv, invece Gheddafi sarebbe stato ucciso con un colpo alla testa.
Al di là dei particolari della cronaca, la morte del colonnello provoca alcune considerazioni. Fin dal primo momento dell’intervento Nato in Libia e definito “una crociata contro di lui”, aveva dichiarato che non sarebbe mai fuggito e che “sarebbe morto nel suo Paese”.Gheddafi non avrebbe certo voluto una fine come quella di Saddam Hussein in Iraq. Ed è stato accontentato dalla sorte.