Società&Culture
Ancora sull’informazione, le testimonianze e le fonti.
Una premessa necessaria prima del mio breve commento all’articolo di Lorenzo Trombetta su Limes on line in risposta al mio “La Siria vista dalla Siria”. Nel suo testo, vengo “contrapposta” ai giornalisti che, in quanto tali, non possono ottenere un visto d’ingresso. Sono anche io giornalista. Anche io non ho potuto entrare in Siria con un regolare accredito. Come altri colleghi sono entrata nel Paese con un visto turistico e come tutti ho rischiato di essere espulsa. O arrestata. Anche a me, per ragioni di sicurezza, l’Ambasciata italiana, aveva proposto di “essere accompagnata alla frontiera con Libano a bordo di veicoli dell’ambasciata”. Ma ho rifiutato, scegliendo di restare ancora nel Paese. Convinta di poter offrire ai lettori qualche informazione più diretta, qualche testimonianza vissuta in prima persona. Senza per questo pretendere “di aver capito tutto”. Non l’ho mai affermato. Mi sono limitata a raccogliere voci e testimonianze. Di giovani, meno giovani, attivisti on line. Attivisti e basta. La storia di uno degli organizzatori della manifestazione di Yarmud, per esempio Lettera43 – Il prezzo della libertà.
Un attivista che sono andata a incontrare e che mi ha raccontato i suoi sogni e le sue speranze per il Paese. Il cui amico da una vita è stato arrestato. Ma anche le voci dei non-attivisti. Perché ci sono anche loro. I siriani pro-Bashar e i siriani contrari alle manifestazioni. Che mi raccontavano le paure, le tensioni, le ansie di fronte a un futuro che consideravano incerto e pericoloso. Che mi riferivano i dubbi su possibili interventi esterni. Non dovevo scriverlo? Non ne avrei dovuto tenere conto? Come esisteva (esiste ancora) una parte di opposizione che credeva nel dialogo con le autorità di damasco, Bassam Al Kadi, Michel Kilo, Lettera43 – L’opposizione inesistente e che contestava l’opposizione all’estero. Tutto ciò si riferisce solo al periodo che va dall’inizio della crisi siriana a quando ho lasciato il Paese, a fine maggio. Ci sono rientrata per pochi giorni a giugno. Ora la situazione è certamente cambiata e anche se sono rimasta in contatto via e-mail e telefonica con le mie “fonti” non ritengo più di essere più i grado di seguire la transizione dall’Italia. Mi manca l’essere sul terreno”. D’altra parte anche io ritengo fondamentali l’uso delle fonti, l’affidabilità o meno dei testimoni, le manipolazioni televisive. Ho lavorato come giornalista in tv , ne so abbastanza, e anche per questo ho scritto “la Siria vista dalla Siria”. Se un noto quotidiano italiano, per esempio, riprendendo una agenzia, il primo aprile 2011 scrive ” circa duemila dimostranti sono stati rinchiusi all’interno della grande moschea degli Omayyadi” ed io ero presente (ero entrata in moschea con l’hijab) e posso testimoniare che è falso, quale testimonianza ha più valore? E’ un buon servizio per il lettore riportare la notizia di un fatto che non è avvenuto?
Di persona , il 27 aprile, ho potuto verificare che non c’erano carri armati al centro di Damasco come affermavano testimoni citati da Aljazeera. Di persona ho assistito all’ingresso dell’esercito in città Lettera43 – Il venerdì militarizzato della capitale. Di persona, seguendo il tam tam degl informatori sono andata a Midan, Kafr Susa, a piazza Abassye, di venerdì. Ogni venerdì ho girato la città. Rischiando di persona. Damasco non è la Siria, ma le persone che ci abitano, centro e sobborghi, sono in contatto con parenti, amici. Che la sera del venerdì commentavano, confermavano le manifestazioni.
Poi c’è il mondo di internet. E della blogosfera. Ho potuto verificare più volte che c’erano notizie che non corrispondevano. Anche io conosco bene la Siria, ho casa a Damasco e molte conoscenze negli ambienti più disparati. Che vivono anche in periferia. Nei sobborghi. Zone che ho girato con i micro, il bus, a piedi. E a proposito del caso della finta blogger Amina, sono stata messa in guardia da amici e da un paio di attivisti che il caso non li convinceva. “O vive fuori dalla Siria e vuole farsi pubblicità o non esiste”, mi dissero. E io ho creduto a loro. Non sono caduta nella trappola dell’intervista on-line, proprio perché vivendo a Damasco, ho potuto tastare il terreno, chiedere, indagare. Nessuno nega l’enorme importanza dei social network ma sono quasi sempre meno affidabili. Possono suggerire piste ma vanno verificate “incrociando i dati con altre fonti credibili, meglio se personali e dunque fidate” come scrive lo stesso Trombetta nel suo articolo” Sangue e Misteri sulla via di Damasco”. E’ quello che ho cercato di fare. Con coscienza. Onestà.
Oggi il fronte dell’opposizione è meglio definito, sono stati resi noti documenti programmatici e sono successe molte cose. Anche se Damasco e Aleppo, non sono ancora scese in piazza proprio perché –come avevo scritto più volte- un ampio settore della borghesia commerciale sosteneva e sostiene il regime. Lo scenario può cambiare ancora. La crisi economica che già si sentiva ad aprile per il crollo del turismo, è galoppante. Magari quei siriani, quei damasceni che non volevano ammettere “il problema” di una parte della società siriana in rivolta e anzi speravano che “ogni venerdì di proteste sarebbe stato l’ultimo”, avranno cambiato idea. Mi piacerebbe sentirmelo dire da loro. Quasi, quasi torno a Damasco…
Donne siriane
Lavoro – Uguaglianza di genere
In Siria, secondo il Syrian Women’s Observatory (SWO) la società è piuttosto conservatrice e le donne partecipano poco al movimento per i loro diritti. Iman, una volontaria mi ha raccontato: “Facciamo molta fatica a comunicare i concetti di uguaglianza di genere. Su 3 milioni di donne fra i 18 e i 50 anni solo mezzo milione sceglie di lavorare fuori casa. Le professioni preferite sono insegnante, medico pediatra, impiegata, infermiera. L’obiettivo è ancora il matrimonio. E la cura dei figli”.
In Siria poche, anche fra le giovani, sanno che in Europa l’8 di marzo si festeggia il giorno della donna. Iman, riporta lo stupore di Mariam, una casalinga 43enne: “Le donne festeggiano una giornata per se stesse? A che serve? Conosciamo i nostri diritti e siamo felici. Io credo che l’unico giorno da celebrare sia quello della mamma”. Ricordo che durante la prima settimana di marzo, a Damasco, avevo fatto la stessa domanda a due ragazze, incontrate alla Mostra dell’artista Ayman Esmandar, allestita nel cortile coperto del Khan Assad Pasha. “Sì… sapevano del Giorno della donna. Avevano visto un servizio in tv”. Una delle due, studentessa universitaria di Lingue, era più battagliera: “Dobbiamo cambiare molte tradizioni che ci bloccano e non ci permettono di raggiungere una vera uguaglianza”.
Ma, in genere, le ragazze, se si sposano dopo la laurea, non cercano un impiego, preferiscono fare le casalinghe. Altre mi hanno raccontato “di non approvare il concetto di uguaglianza di genere”. Per tante, a quanto pare, è sufficiente “essere la presidentessa della repubblica del cuore dell’amato” come canta il libanese Mohammed Iskandar, nel brano che ha dedicato l’anno passato alla moglie. E che è stato a lungo in testa alle classifiche della radio anche in Siria.
Delitto d’onore
Una piaga ancora da combattere, in Siria è quella dei delitti d’onore. Tra i 200 e i 300 all’anno, secondo il SWO. Soprattutto nelle zone rurali del Paese, dove predominano società patriarcali. Non si tratta di un problema di religione ma di tradizione. Le volontarie della SWO hanno dichiarato che “è allo studio una modifica o forse anche la cancellazione dell’articolo 192 del codice penale siriano che prevede l’attenuante per i reati connessi ai delitti d’onore”. In base a quell’articolo è prevista in Siria l’attenuante per chi commette un omicidio per difendere l’onore della propria famiglia. Con questa riforma, invece di una condanna leggera – mi ha spiegato la volontaria Fatima – l’omicida riceverà il massimo della pena prevista dalla legge. E il delitto d’onore sarà equiparato a un omicidio normale”.
Antonella Appiano per Il Portale delle donne – Donne ieri oggi e domani
Donne siriane e guerra – Non hanno partecipato alla rivoluzione insieme agli uomini
Sfatiamo una notizia scorretta che è apparsa sui media italiani, durante la recente crisi siriana, ancora in corso. Le donne siriane non hanno partecipato alle manifestazioni insieme agli uomini. Le musahara(manifestazioni), in Siria si sono svolte sempre di venerdi’, in giorno in cui, andando alla moschea per la grande preghiera, è possibile formare assembramenti (altrimenti proibiti di fatto per legge). Ma le donne non vanno in moschea il venerdì. Secondo l’Islam, possono pregare da casa.
C’è stato qualche raduno separato. Più volte sui siti pro-rivoluzione presenti su Fb, è stata annunciato qualche corteo, a Damasco, che poi non si è svolto. Una volta è stato disperso. Ma si trattava di poche decine di persone. Le donne hanno seguito i funerali dei parenti. Dei “martiri” questo soprattutto a Dar’aa. Ma per stessa ammissione degli attivisti con cui ho parlato, le donne per ora sono assenti dalla scena.
Devo premettere che in Siria, l’opposizione, “reale”- quella sul territorio intendo e non quella virtuale su Internet o quella all’estero- è composta in gran parte da elementi conservatori e religiosi. Anche i più giovani mi hanno risposto che “Per l’Islam il ruolo della donna non è quello”. Altri oppositori più laici hanno sottolineato “il pericolo”.
Impossibile quindi un paragone con le Egiziane. Sia per la modalità attraverso cui si è svolta la “rivoluzione” sia per motivi storici e socio-culturali che differenziano le donne siriane dalle egiziane. Il femminismo in medio oriente è nato in Egitto. Già nel 1923, Huda Sahrawi aveva fondato “l’Unione femminista”. E le egiziane parteciparono attivamente anche alle manifestazioni contro il Protettorato inglese. In Siria, secondo l’”Osservatorio per i diritti della donna siriana”, la società è piuttosto conservatrice e le donne non prendono parte neppure al movimento per i loro diritti. Una volontaria mi ha detto“Non sono interessate. Facciamo molta fatica a comunicare i concetti di uguaglianza di genere. Su 3 milioni di donne fra i 18 e i 50 anni solo mezzo milione sceglie di lavorare fuori casa. Le professioni preferite: insegnante, medico pediatra, impiegata, infermiera. L’obiettivo è ancora il matrimonio. E la cura dei figli”. In Siria poche, anche fra le giovani, sanno che in Europa l’8di marzo si festeggia il giorno della donna. Qui esiste solo la “festa della mamma”.
Naturalmente anche in Siria, ci sono donne che occupano posti di potere e prestigio. Basta pensare a Bouthaina Shaaban, un Phd in letteratura inglese, all’università di Warwick, in Inghilterra, già consigliere per il Ministro degli affari esteri. Oggi è a capo dei Ministero degli Espatriati e Consigliere politico e dei Media del presidente Bashar al Assad.
In Sira, sempre secondo, SWO (Syrian Women’s Observatory) esistono ancora una piaga da combattere, quella dei delitti d’ onore. Tra i 200 e i 300 all’anno, secondo il SWO. Soprattutto, ovvio,nelle zone rurali del Paese, dove predominano società patriarcali. Non si tratta di un problema di religione ma di tradizione. Le volontarie della SWO hanno dichiarato che “ è allo studio una modifica o forse anche la cancellazione dell’articolo 192 del codice penale siriano che prevede l’attenuante per i reati connessi ai delitti d’onore”. In base a quell’articolo e’ prevista in Siria l’attenuante per chi commette un omicidio per difendere l’onore della propria famiglia. Con questa riforma, invece di una condanna leggera – mi ha spiegato la volontaria Fatima- l’omicida ricevera’ il massimo della pena prevista dalla legge e il delitto d’onore sara’ equiparato a un omicidio normale”.
Antonella Appiano da Damasco per dol’s.net (http://www.dols.net/magazines_news.php?id_micro=25&id_sub=10017&id_news=2402)
Melting Pot
Ieri, sul taxi per andare al centro commerciale “Sham City Centre”, incrociavo autobus strapieni di siriani. Donne con l’abaya, ragazze con l’hijab e altre con i capelli al vento, uomini con la kefiah e altri vestiti all’occidentale. La stessa mescolanza nel lussuoso Sham City Center, nella città nuova. Mi ha colpito, come sempre, vedere donne con il niqab mentre comperavano la stessa biancheria o gli abiti per bambini, in mostra nelle vetrine di Milano.
Nel ristorante panoramico sul tetto, mamme con l’abaya e il velo nero insieme alle figlie in jeans e maglioncino…
In nessuna città araba ho mai visto, come a Damasco, un melting pot di stili così diversi. E nella città vecchia, nei caffè della via “Dritta” che parte che Bab Sharqi, o in via Bab Tuma, s’incontrano sempre gruppetti di amiche musulmane con l’hijab e cristiane in minigonna. Fumano harghile, bevono thé, mangiano kebbeh e hummus, si scambiano il rossetto, ridono, chiacchierano fitto fitto. Perché a Damasco culture e religioni diverse hanno convissuto per 15 secoli di storia. E continuano a farlo.
In nessun’altra città araba a prevalenza musulmana, il tramonto e la notte sono illuminati dal verde delle mezze lune delle moschee e dal giallo delle croci delle chiese cristiane. Mi affascina la domenica ascoltare il suono delle campane e il richiamo del muezzin. E sorrido quando penso che in Italia molta gente mi chiede se in Siria “è possibile costruire chiese”. Nel Paese, i cristiani rappresentano il 12% della popolazione e sono divisi in ben 11 confessioni.
Le elenco, secondo il numero dei fedeli: greco-ortodossa, armena-ortodossa, greca cattolica, siriaca ortodossa, armena cattolica, siriaca cattolica, maronita, protestante, latina, nestorina e assiro-caldea.
Alcune non le conosco, lo confesso. Incuriosita, mi sono ripromessa di andare ad assistere alla messa. Prima tappa, domenica prossima, la chiesa della comunità siro-ortodossa, in via Bab Tuma.
8 marzo e Settimana della Donna: come si festeggiano in Siria?
Non si celebrano affatto. Qui in Siria, come in molti Paesi del Medio Oriente, non è accaduto nulla e la settimana è trascorsa come le altre.
Sul quotidiano Baladna, Bassam al-Qaddi, fondatore del Syrian Women Observatory Organization for Women’s Rights, scrive:” Molte donne intervistate sull’argomento, hanno risposto di non essere a conoscenza della Settimana Internzionale della Donna. Altre hanno dichiarato di non approvare il concetto di uguaglianza di genere. Ancora Bassam Al-Qaddi, riporta lo stupore di Mariam, una casalinga 43enne:”Le donne festeggiano una giornata per se stesse? A che serve? Conosciamo i nostri diritti e siamo felici .Io credo che l’unico giorno da celebrare sia quello della mamma”.
Sono riuscita a fare la stessa domanda a due ragazze, alla Mostra dell’artista Ayman Esmandar, allestita nel cortile coperto del Khan Assad Pasha. Difficile per uno straniero.I siriani sono molto gentili ma riservati. Non si confidano volentieri. Per fortuna alle ragazze piaceva il mio vestito, si sono incuriosite e hanno incominciato a chiacchierare…Anche se poi non hanno voluto che scrivessi il loro nome. Sì sapevano del “Giorno della donna”. Avevano visto un servizio in tv. Una delle due, studentessa universitaria di Lingue, è più battagliera:”Dobbiamo cambiare molte tradizioni che ci bloccano e non ci permettono di raggiungere una vera uguaglianza ”.
Anche Bassam al-Qaddi, sottolinea nell’articolo, che le maggiori discriminazioni derivano proprio dalle tradizioni. Anche se, per garantire maggiore parità, molte leggi sulla cittadinanza andrebbero cambiate. Purtroppo oggi in Siria, le donne partecipano poco ai Movimento per i propri diritti. Per tante, a quanto pare, è sufficiente “essere la presidentessa della repubblica del cuore dell’amato” Come canta il libanese Mohammed Iskandar, nel brano che ha dedicato l’anno passato alla moglie. E che è stato a lungo in testa alle classifiche della radio anche in Siria.
8 Marzo e Settimana della Donna:come si festeggiano in Siria?
Non si celebrano affatto.Qui in Siria, come in molti Paesi del Medio Oriente, non è accaduto nulla e la settimana è trascorsa come le altre.
Sul quotidiano Baladna, Bassam al-Qaddi, fondatore del Syrian Women Observatory Organization for Women’s Rights, scrive:” Molte donne intervistate sull’argomento, hanno risposto di non essere a conoscenza della Settimana Internzionale della Donna. Altre hanno dichiarato di non approvare il concetto di uguaglianza di genere. Ancora Bassam Al-Qaddi, riporta lo stupore di Mariam, una casalinga 43enne:”Le donne festeggiano una giornata per se stesse? A che serve? Conosciamo i nostri diritti e siamo felici .Io credo che l’unico giorno da celebrare sia quello della mamma”.
Sono riuscita a fare la stessa domanda a due ragazze, alla Mostra dell’artista Ayman Esmandar, allestita nel cortile coperto del Khan Assad Pasha. Difficile per uno straniero.I siriani sono molto gentili ma riservati. Non si confidano volentieri. Per fortuna alle ragazze piaceva il mio vestito, si sono incuriosite e hanno incominciato a chiacchierare…Anche se poi non hanno voluto che scrivessi il loro nome. Sì sapevano del “Giorno della donna”. Avevano visto un servizio in tv. Una delle due, studentessa universitaria di Lingue, è più battagliera:”Dobbiamo cambiare molte tradizioni che ci bloccano e non ci permettono di raggiungere una vera uguaglianza ”.
Anche Bassam al-Qaddi, sottolinea nell’articolo, che le maggiori discriminazioni derivano proprio dalle tradizioni. Anche se, per garantire maggiore parità, molte leggi sulla cittadinanza andrebbero cambiate. Purtroppo oggi in Siria, le donne partecipano poco ai Movimento per i propri diritti. Per tante, a quanto pare, è sufficiente “essere la presidentessa della repubblica del cuore dell’amato” Come canta il libanese Mohammed Iskandar, nel brano che ha dedicato l’anno passato alla moglie. E che è stato a lungo in testa alle classifiche della radio anche in Siria.
Intervista a Cesare Marino
Dobbiamo ringraziare la giornalista Antonella Appiano per averci segnalato la storia del conte Carlo Camillo di Rudio e del libro che narra le sue avventurose gesta. E dobbiamo ringraziarla doppiamente, perché sua è questa intervista all’autore della biografia, Cesare Marino, antropologo che fa la spola tra la sua terra Treviso, e la Virginia, dove svolge la sua professione allo Smithsonian Institution di Washington.
È infatti lo studioso, uno dei massimi conoscitori di storia e tradizioni dei Nativi Americani, ad aver scoperto e scritto la storia del Conte, nel suo libro “Dal Piave al Little Bighorn”. Partner del progetto multimediale Italiani di Frontiera, Marino è riuscito con minuziose ricerce e con studi approfonditi, a tessere le fila di storie dimenticate di italiani emigrati ed eccezionali, proprio come quella del conte di Rudio.
Tre domande all’autore Cesare Marino
Che cosa l’ha spinta a scrivere questo libro?
La passione per i nativi americani e per gli italiani – esploratori, missionari, avventurieri – che per qualche motivo vissero a contatto con gli indiani. Il Conte carlo Camillo Rudio li combatté nella battaglia di Littele Big Horne, e fu fra i pochissimi sopravissuti. Sono un ricercatore, il mio ambiente naturale gli archivi, le biblioteche… E così a poco a poco ho scoperto tutta la vita affascinante e misteriosa del conte Rudio. Un’avventura staodinaria che non anticipo, così leggerete il libro…
Qualche cenno per incuriosire i lettori?
Il conte era appena quindicenne, quando durante le Cinque Giornate del 1948 a Milano, decide di passare dalla parte dei patrioti, gettando la divisa di cadetto austriaco. Cacciatore delle Alpi a Venezia, garibaldino a Roma. Espatriato a Parigi partecipa al fallito attentato a Napoleone III. Evita di essere giustiziato ma è condannato all’ergastolo alla Cayenna. Riesce ad evadere, emigra negli Stati Uniti, e partecipa alla guerra di Secessione. L’incredibile è che entra poi nel Settimo Cavalleggeri di Custer… Combatte a Little Bighorn e riesce a salvarsi!
E la sua passione per i nativi americani?
È nata in Italia. La mia famiglia era immigrata dalla Sicilia e da “trapiantato” nel Trentino e nel Veneto mi sono sentito sempre un po’ emarginato. Scuro di capelli, anche di pelle… Insomma, un “minoritario diverso”. Da questo status credo sia nato il mio interesse per l’antropologia culturale.
di Antonella Appiano per LibriBlog.com
Ma che c’entra il velo con il lavoro? Eccome se c’entra… provate a presentarvi a un colloquio con l’hijab
Velate o svelate? Il velo è un problema complesso al centro di un vivace dibattito non solo in Europa ma anche nel mondo musulmano.
In Italia, oggetto di polemiche e confusione. C’è, infatti, una gran differenza fra il niqab (velo integrale che lascia scoperti gli occhi), il burqa (mantello afghano che copre testa, viso e corpo, con una retina davanti agli occhi) e l’hijab (semplice foulard che nasconde solo capelli e collo lasciando scoperto il viso). Confusione alimentata anche dai nostri media. Anche stamattina molto quotidiani nazionali titolavano “No al Burqa”.
In realtà l’hijab è il velo più indossato dalle musulmane immigrate nel nostro Paese. Ho molte amiche che lo portano. Anche ragazze giovani. E lo “difendono” per motivi religiosi o semplicemente legati alla tradizione o all’identità. Non credo spetti a noi italiani giudicare. Il punto cruciale è che sia frutto di una libera scelta. Mentre la legge dovrebbe limitarsi al rispetto della normativa del 1975 in materia di sicurezza che vieta di “coprirsi il volto in pubblico impedendo il riconoscimento della persona”. L’hijab non infrange dunque nessuna norma. Eppure molte musulmane con l’hijab sono guardate con diffidenza e discriminate sul lavoro.